Pakistan, l'attentato all'aeroporto raccontato da un passeggero su Twitter

Pakistan, l'attentato all'aeroporto raccontato da un passeggero su Twitter
di Giulia Aubry
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Lunedì 9 Giugno 2014, 18:25
​Aeroporto di Karachi, 8 giugno 2014, ore 21.00 circa. Syed Saim Rizvi a bordo di un aereo in attesa del suo turno per decollare. All’improvviso vede, dal suo finestrino, uomini armati correre da ogni parte. Il primo istinto, forse anche solo per gestire la paura che lo sta assalendo, è quello di scrivere un tweet sul suo canale @saim_riz:



I think some local airline got hijacked by terrorists .. I can see army jawan are on run way now

(Credo che qualche aereo locale sia stato dirottato dai terroristi… Vedo soldati armati che corrono)



La situazione precipita rapidamente e i tweet si susseguono con la stessa velocità:



Fuck --- they fire rocket launchers -- may allah protect my country and all passengers and people who are on the board as well on the floor

(Ci sono lanci di razzi… possa Dio proteggere il nostro paese e tutti I passaggeri e le persone che sono a bordo e quelle a terra).



So we are going to off load in some minutes. SSG commandos are in our plane - feeling safe now ! My Pak Army zindabad

(Dovremmo scendere tra alcuni minuti. Commando delle forze di sicurezza sono a bordo del nostro aereo – mi sento sicuro adesso! Lunga vita al mio esercito pakistano).



Huge blast !!!!!! I do not know whats going on out side -- heavy firing started again - full panic on board !

(Esplosione forte!!! Non so cosa stia succedendo fuori – di nuovo forti sparatorie – a bordo è il panico).



Fin quando, due ore dopo, viene annunciato il divieto assoluto di fornire informazioni su quanto sta accadendo…



Board announcement: ISPR instruct not to update location & movement. sorry ! Last tweet from my side. I am obedient Pakistani & follow ISPR



Annuncio a bordo: ISPR (le forze di sicurezza pakistane) ci hanno detto di non fornire informazioni su luoghi e movimenti. Mi dispiace! Questo è il mio ultimo tweet. Sono un pakistano obbediente…



Ciò che Syed Saim aveva intuito, ma non poteva conoscere nei dettagli pur trovandosi proprio al centro di quanto stava accadendo, è che era appena iniziato un attacco terroristico, probabilmente a opera del movimento Tehreek-e-Taliban', che sarebbe durato tutta la notte con un bilancio complessivo di almeno 24 morti. Syed Saim non è tra questi, tanto è vero che poche ore dopo, ricordando il terrore provato, ha potuto ringraziare tutti dei messaggi di solidarietà e attenzione ricevuti.



Non è la prima volta che twitter dà voce ai testimoni diretti di atti terroristici, conflitti e scontri di piazza. Potremmo chiederci cosa sarebbe successo se il social media dei cinguettii fosse già nato – e fosse già stato tanto popolare – l’11 settembre del 2001. Probabilmente dall’interno delle torri gemelle o dagli aerei dirottati le persone avrebbero raccontato le loro paure, avrebbero cercato un conforto o una spiegazione, mentre dall’esterno sarebbero giunte loro le grida di quanti, impotenti di fronte a situazioni di tale portata, non potevano far altro che twittare, quasi si potesse in questo modo esorcizzare il terrore e l’ansia di quanto stava accadendo.



Probabilmente, come sostiene il giornalista e sociologo canadese Malcolm Gladwell, la “prossima rivoluzione non sarà twittata” e, a distanza ormai di tre anni, l’illusione che le cosiddette “primavere arabe” siano nate sui social media è ormai stata abbondantemente confutata o, quantomeno, il ruolo di questi ultimi è stato ricondotto alla naturale dimensione di strumento di diffusione e non di causa o motore principale. Ciononostante twitter è entrato nell’uso quotidiano e gioca un ruolo, non di secondo piano, nel fornire informazioni su quanto avviene nel mondo al di fuori del mainstreaming mediatico. Molti lo usano come strumento per diffondere il citizen journalism (anche se su questo fronte youtube o i blog hanno ancora la meglio come fonte principale), ma le caratteristiche di brevità, di immediatezza, l’idea – forse romantica ma reale – che scrivere un tweet sia come lanciare un messaggio (di 140 caratteri) in un bottiglia (o sull’autostrada per usare l’espressione, già vintage, di Bill Gates e Al Gore) gli danno caratteristiche che potremmo definire, non senza qualche semplificazione, socio-psicologiche.



Perché si scrive un tweet mentre a pochi metri di distanza stanno sparando? Perché si sente il bisogno di affidare al social media la notizia dell’esplosione di una bomba sul percorso di una maratona, a pochi passi da noi, anche se non si è giornalisti? Come si fa a comporre 140 caratteri quando si è a terra colpiti negli scontri di piazza Maidan in Ucraina? A freddo Syed Saim, ultimo tra i narratori delle vicende drammatiche dei nostri giorni ad aver affidato la sua esperienza a Twitter, ha cancellato molti dei tweet scritti nei momenti più concitati (in particolare quelli in cui faceva riferimento alla compagnia aerea del volo su cui era imbarcato). Però nel momento in cui tutto accadeva sentiva il bisogno di scrivere, di comunicare all’esterno, di informare – come egli stesso ha ribadito – i suoi follower prendendosela anche con il 3G che non andava.



I tweet di Syed Saim come quelli di Olesya Zhukovskaya, l’infermiera ucraina ferita a piazza Maidan lo scorso febbraio, sembrano da un lato servire a esorcizzare la paura, il terrore e dall’altro a testimoniare la propria presenza, lasciare un segno del proprio passaggio in quello che, forse, in futuro sarà ricordato come un evento. È la società del rischio, teorizzata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, che si fonde con la società liquida del suo omologo polacco Zygmunt Bauman. Una società alle prese con paure e incertezze di ogni tipo che ha dato vita a una generazione di individui che, per combatterle, non vogliono rimanere anonimi in una edizione, riveduta e corretta, della celebre frase di Andy Warhol - “nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti” - finalmente sganciata dal vuoto fatuo della popolarità televisiva, che ha generato milioni di “figli del grande fratello”, per ricongiungersi a un vissuto reale che coniuga il narcisismo dei social alla difficoltà di comunicare, realmente, le proprie paure e i propri sentimenti se non di fronte a situazioni estreme, difficili da raccontare per chiunque.



Il social diventa dunque testimonianza di un’epoca come lo furono, a suo tempo, le foto di Robert Capa durante lo sbarco in Normandia o le immagini in bianco e nero degli anni di piombo. I 140 caratteri fotografano uno stato d’animo con le parole e, in questa rappresentazione, solo chi le sa veramente usare – per indole o per mestiere – può sperare di durare più a lungo.



Altrimenti potrà il caso, lo stesso che ha reso celebre un altro pakistano, Sohaib Athar, che nella notte tra il 1 e il 2 maggio del 2011 scrisse sul suo canale @ReallyVirtual:



Helicopter hovering above Abbottabad at 1am (is a rare event)

Un elicottero sorvola Abbottabad all’una di notte (è un evento raro)



La prima informazione pubblica relativa al blitz che, di lì a pochi minuti, avrebbe condotto alla cattura dell’uomo più ricercato di sempre, Osama Bin Laden. Come 48 anni prima era successo, con diversa fortuna, ad Abraham Zapruder a Dallas in occasione dell’assassinio di John F. Kennedy, Sohaib Athar verrà ricordato come un altro “testimone per caso” di qualcosa destinato a rimanere nella storia.



Tra le riprese con la cinepresa e un tweet si colloca la storia, quella della tecnologia e quella degli eventi politici e sociali. Dall’immagine del miliziano spagnolo che crolla a terra colpito (forse) a morte e l’infermiera di piazza Maidan che scrive “sto per morire” su twitter, per poi rassicurarci sul fatto che il giorno dopo sia ancora viva, è trascorso quasi un secolo, ma la volontà di testimoniare (e talvolta un sottile gusto per l’esagerazione che l’accompagna) e il desiderio di esserci sembrano essere ancora intatti.
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