Vittorio E. Parsi
Vittorio E. Parsi

Il caso in Francia/ Cosa insegna il prof ucciso ai tempi del Covid

di Vittorio E. Parsi
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Mercoledì 21 Ottobre 2020, 00:10

L’omicidio di Samuel Paty, il professore decapitato a Parigi da un radicalizzato ceceno per aver mostrato in classe le vignette di Charlie Hebdo sul Profeta Maometto durante una lezione, ha ricordato alla Francia e all’Europa tutta quanta almeno due cose, tra loro drammaticamente collegate: che la sfida dell’estremismo di matrice islamista è tutt’altro che vinta, che la scuola rappresenta il primo presidio e la linea del fronte di questa battaglia.

Il fatto che l’autore materiale dell’azione terroristica non fosse tra gli studenti del professor Paty non deve trarci in inganno. Per poterlo individuare e per farlo oggetto del suo delitto, Abdhoullak Abouyezidvitc, ceceno di 18 anni, nato a Mosca, si era avvalso delle indicazioni dettagliate messe in rete da alcuni genitori della scuola nella quale il professor Paty esercitava la sua professione, scandalizzati dal “gesto” di questo servitore della Francia e dei suoi valori laici e repubblicani. 

A far da contrasto con questo delirio da caccia alle streghe, stanno le tante dichiarazioni degli alunni di fede musulmana di questo normale professore di storia e geografia, assurto al ruolo di “eroe repubblicano” in ragione della sua morte violenta, ma in realtà simbolo e concreta manifestazione del quotidiano senso del dovere di tanti suoi colleghi. 

Chi glielo ha fatto fare a Paty di correre il rischio di tenere una lezione di “laicità sul campo”, che sapeva benissimo gli avrebbe procurato quantomeno più di qualche grattacapo con i “barbuti” di ogni fede, con i cantori dell’autocensura nel nome dei valori non contrattabili, con i pavidi che sempre pensano sia meglio “non immischiarsi”, neppure quando in gioco è la nostra libertà, e soprattutto quella dei più vulnerabili, dei più esposti? 

Probabilmente non pensava che stesse mettendo a rischio addirittura la propria vita (o magari ne era consapevole, chissà). Ma certo doveva aver ben presente che rischio rappresentasse l’esercizio del libero pensiero in una società come la nostra, sempre più bigotta e conformista, sottomessa a chiunque pretenda il suo diritto a non essere oggetto di critica, ironia e persino scherno. Ma il professore ha dimostrato di ritenere che la scuola è innanzitutto il luogo in cui si apprende non il rispetto ossequioso per questa o quella tradizione ma la libertà di pensiero, il diritto di parola, il confronto tra le idee e delle idee: da quelle sublimi a quelle triviali.
È nella scuola, nelle aule, tra gli studenti, che si forniscono gli strumenti affinché ciascuno sia libero di farsi le proprie opinioni: su tutto, senza esclusione di alcun campo, alcun oggetto, alcuna fede.

Partendo dai più deboli, da chi ha nella scuola pubblica la sola opportunità di crescita intellettuale e civica.

Coloro per i quali la chiusura delle aule rappresenta la chiusura della chance di avere un confronto differente rispetto a quello dell’ambiente familiare o della cerchia sociale di riferimento. E, allora, in questo senso, la vicenda tragica e nobile di Paty insegna qualcos’altro anche a noi.

Che chiudere le scuole è un delitto contro le giovani generazioni e contro i valori della nostra Costituzione repubblicana. Che il solo pensarlo – figuriamoci l’attuarl - è un atto irresponsabile. Perché è nella scuola che si iniziano a strappare i deboli alla radicalizzazione e alla camorra, tanto per capirci: piaccia o meno, la lotta contro l’egemonia della cultura della violenza e della sopraffazione parte da lì, dai banchi di scuola. I banchi, appunto. Quelli con le rotelle e non, per i quali sono stati buttati al vento quantità gigantesche di risorse – finanziarie e di tempo – e che rappresentano, né più ne meno dei monopattini, la classica manifestazione di insipienza della nostra classe politica, al di là degli schieramenti di appartenenza.
Il governo Conte ha lottato strenuamente per opporsi all’idea strampalata della chiusura della scuola come “soluzione” al riesplodere della pandemia. 

Ma era quella della falegnameria 4.0 la risposta adeguata? O quelle risorse non avrebbero dovuto invece essere investite nel potenziamento della rete dei trasporti? Non è forse quello il focolaio principale e ben difficilmente inquadrabile della ripresa del virus, persino più dei bar della movida? E in questi lunghi mesi di tregua apparente, di distanza tra i due colmi dell’onda della pandemia, poco o nulla è stato davvero fatto per affrontare il nodo dei trasporti, condito dal solito stucchevole rimpallo di responsabilità tra autorità centrali e autorità regionali e locali e dall’insopportabile teatrino tra governo e opposizioni, all’insegna dell’irresponsabilità.
Forse tra una settimana o due ci verrà detto che sospendere le “lezioni in presenza” (orribile espressione) è il sacrificio necessario per arrestare o rallentare il ritmo della diffusione della pandemia. Ma dovremmo almeno essere consapevoli che questo arresterà anche il ritmo dell’integrazione civile di tutti i ragazzi e le ragazze meno fortunati, più fragili ed esposti a tutto ciò che insieme al loro futuro brucia il futuro dell’intera società.
 

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