Come evitare “una guerra su due fronti” o, per lo meno, come evitare una escalation contemporanea nelle tensioni con Cina e Russia? È questo il dilemma di Joe Biden e degli Stati Uniti, che scontano due errori prospettici che rimontano – per lo meno – al secondo mandato di George W. Bush e che da allora non sono mai stati corretti: l’illusione che il (presunto) declino russo fosse più rapido dell’incontenibile ascesa cinese e che l’Europa e la Nato potessero giocare un ruolo maggiormente attivo di quanto fin qui non sia stato. Washington non detta i tempi e neppure l’agenda di rivali alleati.
La Russia di Putin ha perseguito un costante piano di rinnovamento del proprio strumento militare e si è rivelata assai meno vulnerabile sul piano economico e finanziario di quanto a Washington (e Bruxelles) pensassero. Anche dal punto di vista della sua stabilità interna, Vladimir Putin ha dimostrato che gli autocrati hanno sempre a disposizione un’arma decisiva di fronte al possibile montare di un’opposizione politica significativa: innalzare il livello della repressione. Il caso Navalny è paradigmatico.
Se poi consideriamo chi, tra Washington e Mosca, ha avuto più successo nell’interferire nelle dinamiche politiche del rivale, basta ripensare al Russiagate e a tutto quello che ha gravitato intorno all’elezione e alla mancata rielezione di Donald Trump.
Dopo quasi un decennio dall’annessione della Crimea, dal decisivo ritorno di Mosca in Medio Oriente e dalle sanzioni occidentali, la Russia è oggi più forte militarmente, meglio assestata strategicamente (con un’impronta mediterranea che le mancava da quasi quarant’anni) e con più riserve valutarie che mai.
Nel frattempo, il suo legame con Pechino si è intensificato e la sua capacità di esercitare pressione sulla Ue è sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi cinque anni, mentre da un lato, con Macron, l’Europa ha rivendicato la consapevolezza di una maggiore soggettività politica e militare dall’altro, con Angela Merkel, ha continuato sul sentiero suicida della dipendenza energetica da Mosca.
Il paradosso è che l’Unione Europea gioca oggi un ruolo chiave nella grande strategia di Biden, che si propone – non senza contraddizioni, si pensi al caso della commessa di sommergibili francesi annullata dall’Australia – di coinvolgere gli alleati atlantici nel contenimento globale della Cina. L’assertività mostrata sul dossier ucraino è rivelatrice di quanto Mosca si concepisca invece come una grande potenza di rango analogo a Washington e Pechino, oltre che ovviamente superiore all’Unione Europea e ai maggiori Paesi che la costituiscono.
E non per caso minimizza la portata di quel vertice telematico tra Biden e Putin che, viceversa, l’amministrazione democratica statunitense aveva voluto improvvidamente enfatizzare. Ovviamente, la partita è complicata dal fatto che tanto Kiev quanto i separatisti filo-russi in Ucraina potrebbero tentare di trascinare i propri patroni in un’escalation molto pericolosa. L’impotenza occidentale rischia di mandare a Mosca e soprattutto a Pechino il peggiore dei segnali, mentre svela la difficoltà strategica di Washington e l’irrilevanza europea.
Sarebbe un pessimo risultato anche rispetto al dossier di Taiwan in grado di produrre due conseguenze: accelerare una possibile escalation nel Pacifico e rinsaldare l’intesa delle grandi potenze autoritarie. Proprio nel momento in cui la supremazia politica, economica e persino militare dell’Occidente è messa così drammaticamente alla prova, è fondamentale che Stati Uniti ed Europa mandino un segnale di inequivocabile fermezza, chiarendo che qualunque avventurismo andrà incontro a conseguenze tanto serie quanto permanenti, anche con l’inverno alle porte. Dure, massicce ed estese sanzioni economico-finanziarie sono il primo strumento a cui fare ricorso: mostrare qualunque esitazione adesso, rischierebbe di avvicinare un futuro scenario da incubo.
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