Piero Mei
Piero Mei

Oltre la malattia/ Il senso di Luca per ogni giorno guadagnato

di Piero Mei
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Sabato 7 Gennaio 2023, 00:20

Vialli ci ha lasciati: alla fine quel cancro che «salito sul treno insieme a me e che spero si stanchi e scenda» l’ha avuta vinta su di lui, su quel monello sbarazzino che faceva coppia vincente - vestiti del blucerchiato della Samp dello scudetto e di Vujadin Boskov (che brigata di uomini straordinari in quella Genova!) - con Roberto Mancini, che non era un compagno ma di più, un amico ma di più, un fratello gemello. Ha combattuto come lui sapeva: non la battaglia del guerriero, ma la semplice e complicata abitudine del vivere. È questo, anche e forse più di ogni altra cosa, che ci resta come insegnamento degli ultimi anni del campione partito dal campetto dell’oratorio Cristo Re di Cremona ed arrivato al trionfo nel tempio più tempio del calcio, lo stadio di Wembley a Londra, la città del calcio, con gli Azzurri.

L’immagine dell’abbraccio di quella sera del 2021, lui con il suo k-way azzurro, il Mancio in maniche di camicia bianca, è di quelle che vengono definite iconiche e che ogni volta ti regalano un tuffo al cuore, come la borraccia di Coppi e Bartali; i pugni chiusi e guantati di Smith e Carlos; Mohammed Alì con l’avversario ai piedi. «C’era il passato e il presente, ma non il futuro», il copyright è di Adriano Panatta. Era un aggrapparsi disperato e piangente l’un l’altro, forse più Mancini che Vialli, il quale stava affrontando quelli che sapeva bene che erano gli sgoccioli di una vita scintillante di trionfi sportivi (il primo scudetto con la Samp, la Champions con la Juve, eventi più unici che rari), qualche incidente di percorso, piccoli e grandi amori, Cremona, Genova, Torino, Londra in quel di Chelsea e poi il cancro.

E la vita da continuare, vivendola in ogni sfaccettatura, perché non voleva «morire prima dei miei genitori», voleva «accompagnare le mie figlie all’altare».

Voleva, in una parola, vivere. Ed ha vissuto questi ultimi anni, come fosse, finché ha potuto, il Vialli di sempre, affidandosi a cure sperimentali che forse ne hanno prolungato l’attesa della fine (di certo sono state utili agli altri). Cure che gli hanno concesso la bellezza del quotidiano, magari nascondendo con l’indossare un maglione sotto la camicia quei muscoli che lo stavano abbandonando; magari con le figlie attorno e vicine, come tutti i suoi affetti (e quanto amore e ammirazione ha suscitato, Gianluca!) Il cordoglio è del calcio e di tutto il mondo, del potere e del popolo; perfino gli haters più senza pudore stavolta hanno taciuto. Ha vissuto quando le ragazze gli truccavano le sopracciglia, perché la devastazione della chemio non fosse un pugno nello stomaco di chi lo incontrava dopo averlo conosciuto ragazzo riccioluto e bellissimo.

C’era, in questi anni chissà quanto duri dentro ma vissuti senza compiangersi, semplicemente vissuti, un lavoro da completare: quel lavoro era la vita, coronata da quell’abbraccio di Wembley che diceva «ehi, fratello Mancio, abbiamo vinto ancora». Avevano vinto l’Europeo, Gianluca aveva vinto la vita, seppure nulla ha potuto ieri contro la morte. L’ha vinta dal Vialli che era, l’intelligente, il simpatico, il giocatore-tecnico Vialli, indimenticabile nel dribbling della domenica e nel quotidiano

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