Piero Mei
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Battaglia vinta/ Se il Paese riparte anche con un pallone

di Piero Mei
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Sabato 3 Luglio 2021, 00:15

A Wembley, a Wembley. Next Generation Italy: era questo il piano di Roberto Mancini quando ha preso in mano la cupa Italia che non si qualificò per i mondiali. Non era un piano anagrafico, o non solo: era la ripartenza, questo sì. L’Italia doveva “rifare gruppo”, che è quello che meglio le riesce, su di un campo di calcio e no, quando il momento lo suggerisce, lo impone quasi. E questo nuovo gruppo non è quello che s’era arroccato mundial, a Spagna ’82, contro un nemico visto ovunque, né quello accerchiato dagli scandali, di Germania 2006.

Questo chissà dove ci porterà (a Londra di sicuro, un pensiero per volta: c’è la semifinale e c’è la Spagna) ma è diverso da quei due che hanno raccolto sì il tifo di tutti, più del popolo che non della “competenza”, però questo di Mancini ha fatto innamorare. Per alcune semplici ragioni. La prima è che il calcio è un gioco, e l’Italia lo gioca. La seconda è che uno squarcio d’azzurro in questi mesi che, quando non erano neri, erano grigio scuro (fumo di Londra) lo desideravamo tutti.

Non solo virus, please, in queste notti così attese. Questa è l’Italia dalla simbologia giusta: spesso lo sport s’è preso anche questo incarico, oltre a quello di vincere, il che ci capita più di quanto non ce lo concedano i big data né tantissimi altri settori del nostro pane quotidiano. L’Italia che riparte, nella metafora e nella realtà. E in quella sana retorica, che ha da essere. Qualcuno dirà che «è solo una partita di calcio»: vi pare poco? Qualcuno dirà che «è solo un campionato europeo»: vi pare niente? Quando Nicolò Barella ha fatto il suo gioco di prestigio, un gioco di gambe e pallone, ed stato il gol del vantaggio per gli spavaldi (ma non sbruffoni) ragazzi di Mancini che costruiscono calcio, nello stadio “italiano” di Monaco di Baviera, nei luoghi dell’ “assembramento” (non abbassare la guardia, ragazzi e no) il sentimento di essere andati oltre l’attesa d’inizio torneo ha cominciato a farsi speranza; quando Lorenzo Insigne ha trovato l’angolino con quel destro a giro che è la sua firma, era più caldo ancora, da cantare sui balconi.

Quando Lukaku s’è presentato al rigore, abbiamo sperato in una smanacciata di Donnarumma, che ha le mani che arrivano ovunque (in serata l’avevano già fatto). Così non è stato. Ma per un attimo: rispetto sì, paura no. Perché l’Italia è tornata in campo a fare ancora l’Italia, il suo gioco, la sua fantasia. Il “calcio all’italiana” adesso è davvero un’altra cosa. E un’altra cosa è questo gruppo di ragazzi e meno, di amici prima di tutto, di Mancini e Vialli che s’abbracciano come quando erano i “monelli” di Boskov, di Spinazzola (aveva appena tolto una palla dalla porta italiana), uno dei migliori fin qui, che esce piangendo per un altro infortunio, con a consolarlo per primo il fresco entrato Cristante, gente di Roma che già fa gruppo come se Mourinho non fosse arrivato soltanto ieri. Niente è vinto, ma niente è perduto: e siamo fra “le meglio quattro” d’Europa.
 

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