Pio d'Emilia
Pio d'Emilia

Addio a Issei Sagawa, il “cannibale di Kobe”

Addio a Issei Sagawa, il “cannibale di Kobe”
di Pio d'Emilia
5 Minuti di Lettura
Lunedì 12 Dicembre 2022, 01:47 - Ultimo aggiornamento: 21:53

Del nostro primo incontro, ad oltre 40 anni di distanza, e di cui all’epoca scrissi proprio su questo giornale (“Per una fetta d’amore” mi pare fosse il titolo dell’articolo) ricordo ancora tutti i particolari.

Era agosto inoltrato, una giornata caldissima e umidissima, tipica dell’estate giapponese. Issei Sagawa, il “cannibale di Kobe”, ci ricevette in un appartamento pieno di scatoloni, a Yokohama, che la madre aveva preso temporaneamente in affitto. Non c’era, o comunque non era in funzione, l’aria condizionata. Noi - ero con un collega olandese, che però si era finto anche lui italiano perché Sagawa non voleva incontrare giornalisti francesi o olandesi - in maglietta a maniche corte, eravamo fradici di sudore.

Lui, in giacca e cravatta, fresco come una rosa. Parlammo per più di un’ora, non ricordo di avergli mai visto sbattere le palpebre. Ci guardava, alternando il suo sguardo di volta in volta verso uno di noi, fissandoci con quei occhi piccoli, tristi e al tempo stesso minacciosi, occhi, ai quali non riuscivo a sottrarmi. Alzò la voce solo per un attimo, parlando dei “maledetti giornalisti che si inventano le cose”. Quali cose, gli chiesi. “Che io abbia violentato Renèe. Mai successo, né prima, ne dopo averla uccisa. L’ho solo mangiata”.

E continuò: “E’ una questione culturale, non solo legale. Io sono sempre stato attirato dal cannibalismo e ho sempre sognato di mangiare una donna. La mia donna. Nella mia testa, mangiando Renèe ho commesso il gesto più sublime d’amore: l’ho metabolizzata nel mio corpo per sempre, cosa che non succede quando si fa sesso per pochi minuti. In Francia mi hanno giudicato un pazzo criminale, quindi non imputabile. E ci sta. Certamente lo sono. Ma non volevano mantenermi a vita in un ospedale psichiatrico e mi hanno rispedito in Giappone. Qui però i medici mi hanno diagnosticato un disturbo psichico temporaneo e irripetibile. E mi hanno lasciato andare dopo un paio di settimane. Tutto qui”. Mica tanto.


Incontrammo Issei Sagawa, il “cannibale”, nell’agosto 1986, pochi giorni dopo che era stato dimesso dall’ospedale di Matsusawa di Tokyo, dove era stato “parcheggiato” per qualche giorno sopo la sua controversa, ma legalmente ineccepibile, “deportazione” dalla Francia. Cinque anni prima, l’11 giugno 1981, a Parigi, dove studiava letteratura francese alla Sorbona, aveva ucciso, seviziato, fatto a pezzi e mangiato buona parte del suo corpo la povera Renèe Hartvelt, una ragazza olandese di 25 anni, sua collega di studi di cui si era invaghito (ma senza mai dirglielo) e che aveva invitato a cena con la scusa di recitare assieme delle poesie. Le sparò alla nuca, a bruciapelo, prima di far scempio del suo corpo. Sagawa è morto pochi giorni fa, a Tokyo, a 73 anni, dopo essere stato colpito da un ictus e aver perso ogni forma di sostentamento. Ma ciò non gli aveva impedito, un anno fa, di accedere a Tiktok e ripubblicare una delle sue più famose – e scabrose – interviste. 


Su una cosa Sagawa – che ho avuto occasione poi di reincontrare un paio di volte: nel frattempo era diventato una “star” - aveva avuto ragione: non avrebbe più commesso il suo crudele reato.

I medici giapponesi, all’epoca probabilmente “avvicinati” dal ricco e potente padre, tutto sommato ci avevano azzeccato, con la loro diagnosi. Non sarebbe più successo. Il suo cannibalismo era più ideologico che reale.

Una volta che il suo desiderio – palesatosi per sua stessa ammissione sin dall’infanzia e diventato, dopo la pubertà, una vera e propria ossessione - era stato soddisfatto, nella forma più estrema e cruenta, Sagawa avrebbe vissuto – ricavandone per un certo periodo grande popolarità e cospicui guadagni – di ricordi. Ricordi che morbosamente e senza alcuno scrupolo – permettetemi, da “addetto ai lavori” di esprimere il mio disgusto per certo tipo di “giornalismo”, ho conosciuto personalmente “colleghi” che l’hanno convinto a farsi ritrarre con coltello e forchetta accanto al corpo nudo di una modella – sia i media locali che internazionali gli chiedevano, dietro ricchi compensi, di ricostruire di volta in volta in “esclusiva” per loro.

Una fatica alla quale il “povero” Sagawa – alla fine, era diventato in un certo senso anche lui una “vittima” – si prestava volentieri, aggiungendo e omettendo di volta in volta particolari più o meno cruenti, risucchiato dal vortice della popolarità e del carrozzone mediatico.


Ma non solo. Oltre ad essere invitato ai talk show, a firmare una rubrica di critica gastronomica per una popolare rivista settimanale (Spa) e a tenere lezioni di “storia dell’antropofagia” presso alcune università, la sua vicenda ha ispirato scrittori, musicisti, registi di fama locale ed internazionale. Il popolare scrittore, poeta e drammaturgo Juro Kara, con il suo “Lettere di Sagawa” vinse nel 1982 il prestigioso premio Akutagawa, equivalente del nostro Premio Strega, mentre il dokufilm “Caniba”, diretto e prodotto da Lucien Cstaing-Taylor e Parvael Verena, che lo vede protagonista assieme al fratello Jun, vinse il premio speciale della giuria “Orizzonti” alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia, nel 2017 (qui il trailer, che potrebbe forse bastare).

Per non parlare di due “storici” brani musicali, la struggente “La folie”, del gruppo punk inglese The Stranglerse la meno famosa, meno struggente ma molto efficace “Too much blood” dei Rolling Stones, entrambi direttamente ispirati alla vicenda. Una vicenda cruenta, raccapricciante, triste. Con varie vittime: Renèe, la sua famiglia, ma anche, alla fine, lo stesso Sagawa. E molta, troppa gente che l’ha impunemente sfruttata, sciacallandoci sopra. 
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA