Gianfranco Viesti
Gianfranco Viesti

Interessi di parte/ L’occasione da cogliere per il riordino dei territori

di Gianfranco Viesti
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Giovedì 26 Agosto 2021, 00:10

Si starebbe riaprendo il dossier dell’“autonomia regionale differenziata”. Un tema che nel 2018-19 aveva occupato a lungo le prime pagine dei giornali: la richiesta delle amministrazioni di Veneto, Lombardia e, con qualche distinguo, Emilia Romagna, in base all’articolo 116 della Costituzione, di ottenere dallo Stato una enorme gamma di competenze aggiuntive; con meccanismi per il loro finanziamento stabiliti ad hoc, molto favorevoli. Richiesta che avrebbe cambiato il volto del Paese. Che era andata vicinissima ad essere soddisfatta con il governo Conte I. E che era stata contrastata (nel silenzio dei partiti) da alcuni settori dell’opinione pubblica, con un ruolo assai importante proprio di questo giornale nell’informare i cittadini. Che era poi scomparsa dai radar con la pandemia. Ora sembra ritornare. Ma in condizioni politico-istituzionali che sembrano diverse da quelle di due anni fa. 

L’autonomia differenziata è stata il momento culminante del complesso e confuso processo di indebolimento del nostro Stato nazionale e dei suoi interventi universalistici e perequativi avviatosi con l’inizio del secolo. A partire dall’approvazione della riforma costituzionale del 2001; con la persistente debolezza di Governo e Parlamento nell’intervenire su materie considerate nei fatti in mano alle Regioni, come la sanità; e contemporaneamente con il rafforzamento del potere normativo ed economico di queste ultime rispetto ai Comuni. Ancora, con il lentissimo e incompleto processo di attuazione degli aspetti finanziari della riforma, avviato con la legge 42 del 2009 ma ancora in alto mare. Con l’abbandono della grande questione di Roma capitale. Su tutto questo, dal 2011 si è abbattuta la grande crisi, con il taglio della spesa pubblica e il regresso dell’economia italiana.

Tutto ciò ha provocato un montante desiderio nelle tre Regioni più forti del Paese, indipendentemente dal loro colore politico, di voler far molto di più da sole, di schermarsi dai tagli, di difendere il più possibile il gettito fiscale (ritenuto proprio) per poter finanziare i servizi o ridurre le tasse. Ha esasperato i conflitti territoriali nell’allocazione delle risorse, con numerose vicende, dal finanziamento dei Comuni a quello dell’Università, in cui le parti più deboli del Paese sono state penalizzate. Le richieste del 2018-19 di autonomia differenziata delle tre regioni ne hanno rappresentato il culmine. Una sostanziale “secessione dei ricchi”: il tentativo di difendere i propri cittadini e le proprie imprese (e il potere delle stesse classi politiche regionali) disinteressandosi del resto del Paese, in balia del mare in tempesta degli anni Dieci.

La pandemia ha sparigliato le carte: ha fatto emergere vizi e debolezze regionali e ricordato la centralità delle politiche nazionali; poi, con il Piano di Rilancio, ha – quantomeno per il momento – invertito le priorità della politica fiscale. Si pensi proprio al Piano, che è stato disegnato tutto in sede nazionale (con le Regioni che hanno dovuto abbozzare); che restituisce un po’ più di centralità alle città; che interviene per la prima volta con una politica socio-sanitaria su tutto il territorio nazionale, anche per ovviare agli squilibri resi evidenti dalle tragedie del Covid in Lombardia; che vuole ridisegnare la fiscalità. Che mira, con una cesura profonda rispetto all’ultimo ventennio, ad un rafforzamento strutturale dei grandi servizi pubblici (assistenza, sanità, giustizia, istruzione, trasporto ferroviario) e ad una loro più omogenea copertura territoriale: anche se quest’ultimo aspetto sarà tutto da monitorare. Nuove strutture pubbliche, finanziate con le risorse europee, imporranno un rafforzamento dei soggetti territoriali deputati a farle funzionare a vantaggio di cittadini e imprese, a pena di un totale fallimento del Piano.

E qui si arriva a quel vero e proprio vaso di Pandora che la “secessione dei ricchi” voleva scavalcare tutelando solo gli interessi delle tre Regioni: come assicurare un efficace disegno politico-amministrativo nella loro gestione, lungo l’asse Stato-Regioni-Città e meccanismi equi di finanziamento per Regioni e Comuni, nell’ambito della riforma fiscale? Come garantire che strutture e risorse disponibili si traducano, con efficienza, in servizi?

E’ un vaso di Pandora perché è un groviglio di questioni normative ed economiche intrecciate fra loro, figlie della incompleta e distorta attuazione proprio della riforma costituzionale e della mancanza di coraggiose e trasparenti scelte politiche nazionali nell’ultimo ventennio. A partire dalla mancata definizione dell’architrave del tutto, e cioè i “livelli essenziali delle prestazioni” (i diritti di ogni cittadino italiano), oggi finalmente all’attenzione della politica. Poi con la necessaria attuazione del dormiente decreto 68 sul finanziamento delle Regioni, che dovrebbe comportare anche la riforma dei criteri di riparto del fondo sanitario nazionale, che oggi non tengono conto dei “fabbisogni standard” di salute. Ancora, con il completamento del fisco comunale, che vede i meccanismi di perequazione attualmente rinviati al 2030, e con la definizione finalmente di nuovi poteri per Roma. Ma anche con sfide nuove, come il riparto fra i comuni delle nuove risorse della legge di bilancio per asili e sociale: come distribuirle e come garantire che siano usate per quei fini? Il tutto, in un Paese in cui le due Isole e alcuni territori del Nord, a statuto speciale hanno regole tutte loro e alcune grandi città hanno bilanci dissestati. E in cui si sta ripensando l’intero assetto del prelievo fiscale, che deve finanziare anche le autonomie. 

E’ in questo quadro che andrà letta la nuova legge-quadro sull’autonomia differenziata, alla luce dei problemi che già comportavano le richieste regionali. Si accetterà davvero di regionalizzare la scuola italiana, come richiesto da Lombardia e Veneto? Potrà la regione Lombardia, dopo il covid, continuare a sostenere che essa merita più autonomia per la sua efficienza ed efficacia? E come si normerà la possibilità che poi tutte le Regioni italiane a statuto ordinario possano accedere alle stesse competenze, cambiando di fatto l’articolo 117 (che le ripartisce)? Si potranno definire davvero norme finanziarie ad hoc, di favore, una volta riaperto il “vaso di Pandora”?

Staremo a vedere: la vicenda andrà seguita con attenzione, anche alla luce del riposizionamento dei partiti in vista delle prossime elezioni. Può sempre succedere che si miri a soddisfare per motivi di consenso le tre Regioni più forti con norme particolari. Ma può succedere che invece si decida di porre la questione da parte, provvedendo finalmente a mettere in ordine tutto il Paese, a farlo diventare un po’ più equo, a farlo funzionare meglio. Il punto è che nello scenario degli anni Venti il Piano di Rilancio rischia di restare sulla carta se non si compie progressivamente questa seconda, assai complessa e ambiziosa operazione. Per la quale, però, non bastano qualche commissione tecnica o qualche decreto ma è indispensabile recuperare un ruolo centrale per il Parlamento, nella discussione, compensazione e nell’integrazione dei tanti interessi particolari in gioco e nel definire soluzioni di respiro nazionale. Il vero rilancio passa anche da qui.

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