Gianfranco Viesti
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Obiettivi comuni/ Le scadenze del Pnrr da rivedere in Europa

di Gianfranco Viesti
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Mercoledì 2 Novembre 2022, 00:04

A pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo e subito dopo il primo Cdm “operativo”, può essere utile chiedersi: ma a che punto è il Pnrr? Non vi è una sola risposta: dipende dalla prospettiva a cui si guarda. Vediamo. L’Italia deve raggiungere ogni semestre traguardi e obiettivi concordati con la Commissione Europea; se questo accade, riceviamo un assegno di una ventina di miliardi ogni volta, in parte sotto forma di prestiti (a basso tasso di interesse), in parte a fondo perduto. Il governo Draghi ha sottolineato con grande enfasi questo aspetto. Ha centrato i risultati negli scorsi trimestri, e ha avviato il lavoro anche in questi mesi. Dovrebbe essere possibile avere successo anche a fine dicembre. Ma a partire dal prossimo anno si tratterà di raggiungere sempre meno traguardi (cioè avanzamenti giuridico-amministrativi) e sempre più obiettivi (cioè avanzamenti di spesa): nel secondo semestre 2022 dobbiamo raggiungere 39 traguardi e 16 obiettivi, ma nel secondo semestre 2023 saranno 23 e 46. E quindi è utile chiedersi come è la situazione dal punto di vista della spesa. Il governo Draghi ci ha fatto sapere, attraverso la recente Nota di aggiornamento al Def, che il profilo di spesa è peggiore di quanto previsto. Nel 2022 avremmo dovuto spendere circa 30 miliardi, e invece al 31 agosto siamo a 11,75. 

Potrebbero non essere stati considerati, per motivi tecnico-contabili, tutti i progetti; ma è lo stesso governo a dirci ora che a fine anno arriveremo a 15. I pagamenti sono, stando alla Relazione trasmessa il 5 ottobre al Parlamento, «principalmente riferibili a progetti in essere», previsti da disposizioni precedenti al Pnrr e il cui finanziamento è stato spostato sulle risorse europee. La macchina dei nuovi progetti non è ancora partita. Questo ha comportato un forte aumento delle previsioni di spesa per il 2025 e il 2026. Ma riusciremo ad accelerare così tanto? La responsabilità è ora del nuovo governo.

Sull’attuazione del Piano sono arrivate le nubi nere dell’inflazione. L’Istat ci fa sapere che nel 2021-22 i prezzi della produzione di edifici non residenziali hanno subito un aumento di oltre il 14%. Questo significa che i costi delle tantissime opere pubbliche previste nel Piano, fissati ad aprile 2021, oggi possono essere “fuori mercato”. Il governo Draghi ne è stato ben conscio e ha destinato risorse aggiuntive, significative, per coprire le differenze nei costi. Lo spettro che si aggira per i ministeri responsabili delle diverse misure sono le gare andate deserte, come nel caso del bando delle Fs per tre navi veloci per lo Stretto di Messina, che non ha raccolto offerte. Intendiamoci, molti appalti sono stati aggiudicati, ma la situazione non lascia tranquilli.
Questi stanziamenti non bastano certamente per tutto il Piano: il governo Meloni ne dovrà aggiungere molti altri, specie se l’inflazione continuerà a crescere.

E sull’attuazione del Piano sono arrivate anche le nubi nere della recessione, che comporterà, ce lo conferma Banca d’Italia, una riduzione degli investimenti delle imprese. Qui il rischio è che i 38 miliardi che il Piano destina, in una pluralità di misure straordinariamente articolata, ad incentivi alle imprese (senza contare i bonus edilizi) venga solo parzialmente aggiudicata, come nel caso del miliardo destinato a solare, eolico e batterie, che ha ricevuto richieste per il 63% delle disponibilità. O, peggio, che le imprese poi rinuncino. Inoltre, incidentalmente il governo Meloni dovrebbe anche tenere conto che le misure gestite dal Mise stanno mancando clamorosamente l’obiettivo di allocazione del 40% nel Mezzogiorno.

Infine, c’è il tema più volte sollevato anche su queste colonne, della capacità delle amministrazioni locali di realizzare gli ingenti investimenti (almeno 40 miliardi) che il Piano destina loro.

Il Pnrr ignora la necessità di potenziamento di amministrazioni fortemente colpite dai tagli del passato (i dipendenti dei Comuni, ci dice l’Anci-Ifel, erano scesi dai 479.233 del 2007 ai 348.036 del 2020). Sono state messe in atto successivamente misure di sostegno, parziali e non sempre coronate da successo. Abbiamo solo primissimi dati, ma qui i rischi sono palpabili.

Dunque, il quadro non lascia del tutto tranquilli. In campagna elettorale si è accennato alla possibilità di cambiare il Piano. In teoria è possibile, ma in pratica è difficile, dato che sull’attuale testo si basa un contratto fra l’Italia e la Commissione; e che una sua modifica dovrebbe essere poi approvata da tutti gli altri paesi europei. Ma va tenuto conto di un altro, ancor più importante, fattore: il Piano è già partito. Stando al monitoraggio (con dati al 30 giugno) del Dipartimento per la Coesione della presidenza del Consiglio, l’82% delle risorse sono state già “attivate”: sono cioè già stati presi impegni giuridicamente vincolanti. Il nuovo governo sta scoprendo che nelle stanze ministeriali i “bottoni” (per rifarsi alla famosa frase di Nenni del 1962) ci sono davvero: ma che i precedenti inquilini li hanno già premuti praticamente tutti.

In conclusione ci sono tre possibili punti di riflessione. Il primo è la centralità dell’attuazione. E quindi la necessità di prevedere risorse aggiuntive di bilancio, nei prossimi anni, per realizzare ciò che è previsto a prezzi più alti. E di sostenere immediatamente, con ben maggiore forza, le amministrazioni locali nei loro processi attuativi: se non si monitora attentamente la situazione e non si interviene nelle prossime settimane, i ritardi rischiano di divenire incolmabili. 

Il secondo spunto di riflessione riguarda l’utilità della negoziazione tecnica. Quel che si può provare a fare con i servizi della Commissione, senza proclami ma sedendosi allo stesso tavole, è capire se, come e quanto alcuni interventi possono essere un po’ ridimensionati nei loro obiettivi finali a parità di risorse. Questo non vale per le opere “unitarie” (che o si fanno o non si fanno) ma può riguardare alcune altre situazioni, facendo di necessità virtù. 

Infine c’è l’opportunità di una iniziativa politica. L’Italia potrebbe sostenere con forza la proposta già avanzata in settembre dal governo portoghese, che aveva apparentemente riscosso l’interesse del Commissario Gentiloni (e invece l’apparente disinteresse del governo Draghi) di allungare le scadenze di spesa – a parità di risorse – per tener conto delle oggettive difficoltà create a tutti i governi dalla potente fiammata inflazionistica. Farlo ora consentirebbe di procedere con un po’ più di calma e attenzione, a vantaggio anche delle casse erariali; e di non correre il rischio di doverlo chiedere, disperati, nel 2024-25. Il Pnrr è una delle poche luci, nel buio inverno della crisi energetica che si sta abbattendo sull’Italia. Teniamola bene accesa.

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