Paolo Pombeni
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L’incubo fame/ I costruttori di pace con l’obbligo di accelerare

di Paolo Pombeni
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Giovedì 26 Maggio 2022, 01:16

La guerra che Putin ha scatenato contro l’Ucraina non è un conflitto locale per conquistare qualche porzione di territorio, magari facendo leva sul fatto che i confini politici non sempre rispettano gli insediamenti delle etnie, specialmente in territori dalla storia complicata come è quella dell’Est europeo. E’ una guerra imperiale connessa con il ridisegno degli equilibri strategici fra le grandi potenze. Per questo coinvolge problemi complessi e accende tensioni che vanno oltre quelli che potrebbero essere alcuni obiettivi immediati, giusti o sbagliati che siano. Ricordarlo può essere banale, ma fino ad un certo punto. Il contesto conta molto e non si lascia circoscrivere facilmente: come è nella logica di questo genere di conflitti, vengono al pettine molti nodi che negli anni precedenti non erano stati presi nella dovuta considerazione. Uno di questi è cosa significa la distribuzione delle risorse alimentari in un mondo fortemente interconnesso, se non vogliamo dire globalizzato. La crisi alimentare dipendente da stagioni climatiche avverse non è iniziata quest’anno.

Essa tocca in particolare un continente già in situazioni difficili come è l’Africa, ma non solo (si pensi che il problema esiste anche in Afghanistan, tanto per evocare un altro punto di questa terribile geografia). Sin qui la si è affrontata, parzialmente in verità, facendo conto sulle disponibilità globali di risorse alimentari: inutile darsi troppo da fare per coltivare grano e altro su terreni anche solo meno adatti, quando ci sono quelli che possono produrre in sovrappiù per tanti altri, se non proprio per tutti. E’ quanto si è fatto col cosiddetto granaio del mondo collocato in Ucraina e in parte in Russia. La guerra ha scompaginato questi calcoli, non solo perché ha messo in crisi i commerci, ma la stessa filiera della coltivazione (non si seminano e si lavorano i campi sotto le bombe). Conseguenza segnalata da molti: c’è il rischio molto concreto di una emergenza alimentare mondiale, di un nuovo tipo di carestia che naturalmente colpirà di più i paesi poveri e marginali, ma poi in misura diversa tutti. Un fenomeno che, oltre ai terrificanti costi umani che comporterà, incentiverà migrazioni di massa, conflitti locali, aumento della competizione per il controllo delle filiere produttive. Ce ne stiamo rendendo conto e pare che persino sul teatro bellico ciò induca a riconsiderare la situazione. La notizia che la Russia avrebbe accettato di liberare le rotte per l’esportazione del grano e di altri cereali bloccate dalle mine sparse a piene mani nel Mar Nero è di quelle che è più che lecito definire confortanti.

Naturalmente bisognerà verificare che non si tratti di pannicelli caldi, di momentanee aperture fatte solo a scopo propagandistico, come è troppe volte successo per i corridoi umanitari. Vogliamo sperare che invece sia un primo segnale della riconsiderazione delle conseguenze a cui si va incontro inabissandosi nella logica cieca della prova di forza militare. La guerra, diceva il buon Clausewitz, dovrebbe essere la prosecuzione della politica con altri mezzi e si narra che il cancelliere Bismarck amasse ripetere che la guerra era una faccenda troppo seria per lasciarla fare ai generali.

Vorremmo che queste elementari considerazioni, che sono altra cosa dallo sventolare un astratto pacifismo senza radici nella realtà, prendessero sempre più piede. E’ stato giusto, diremmo obbligato, dare all’Ucraina i mezzi per difendersi dall’invasione a cui è stata sottoposta e quei mezzi non potevano che essere armamenti, anzi tanto più sofisticati in quanto dovevano pareggiare in qualche modo una sproporzione rispetto alle forze e alle dimensioni del paese aggressore. Andare oltre l’obiettivo di impedire il suo prevalere, significa però ignorare quella dimensione di guerra imperiale che è tipica di questo conflitto. Una guerra che è partita per scardinare equilibri non si risolve chiudendola nei confini di un conflitto locale per questioni di confine. Richiede che ci sia uno sforzo collettivo per dare nuova forma e nuova linfa a quegli equilibri che si sono usurati. E’ questo il lavoro che devono fare gli autentici costruttori di pace, che devono lavorare a quell’obiettivo senza l’illusione ingenua che lo si possa perseguire bloccando prima il conflitto armato per discutere poi delle nuove sistemazioni.

Mentre la guerra prosegue, presumibilmente non per breve tempo, si devono sfruttare tutti i pertugi che si apriranno nelle tattiche e strategie dei contendenti per far maturare le condizioni per comporre la nuova geografia della stabilizzazione. Paradossalmente, ma non tanto, questo sarà facilitato dalla dimostrazione sul campo che nessuno può pensare di prevalere, altrimenti chi è in vantaggio non sarà disposto a rinunciare ai suoi sogni di vittoria e chi è in svantaggio ambirà a rovesciare la situazione. La presa in seria considerazione della portata della crisi alimentare che è alle porte può spingere tutti, i contendenti, ma anche quelli che più o meno al loro fianco possono esser spinti a speculare sui diversi esiti possibili della guerra in campo, a pensare agli effetti devastanti che una grande carestia avrà sugli equilibri mondiali. Sin qui si è speculato sul rischio della trasformazione del conflitto ucraino nella terza guerra mondiale “atomica”.

Un rischio certo presente, ma anche tenuto sotto controllo dall’incubo di quella che ai tempi della guerra fredda veniva chiamata la Mad, mutual assured destruction (l’acronimo significa folle): l’esito di una guerra nucleare è una distruzione generalizzata in un arco di tempo molto concentrato. Una grave crisi alimentare generalizzata sconvolgerebbe il mondo in maniera più subdola e con tempi forse meno rapidi, ma certo segnerebbe un tornante drammatico della nostra civiltà. Questo è un rischio più imminente e meno semplice da spiegare all’opinione pubblica, ma noto a tutti i seri analisti politici. C’è da sperare che facendo leva su questo e impiegando tutta la pazienza necessaria (e tutta la cautela di tenersi lontani dalle sceneggiate che tanto piacciono ai vari populismi) si possa avviare quel processo condiviso a livello internazionale di ricostruzione virtuosa dell’equilibrio di sistema. Qualche spiraglio si intravvede e dunque bisogna inserirvisi con audacia, senza pensare però che intanto tutto si fermi in attesa di risultati futuri che sono da costruire.

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