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Cina, la condanna di Zhang e il ruolo delle voci libere

Articolo riservato agli abbonati
30 Dicembre 2020 (Lettura 4 minuti)

Quattro anni di prigione per avere contribuito a svelare al mondo che cosa stava succedendo a Wuhan e le condizioni draconiane alle quali le autorità di Pechino hanno tenuto sotto controllo la sua ulteriore diffusione. Questa è la “ricompensa” che il tribunale di Shanghai ha riconosciuto a Zhang Zhan - avvocata di 37 anni, blogger e “cittadina giornalista” - rea di aver «raccolto litigi e provocato problemi» attraverso le sue testimonianze postate sui social network e, di lì, rimbalzate nel web. Gettata in una galera – dove in realtà è già reclusa da maggio, sottoposta ad alimentazione forzata da quando, a giugno, ha intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro la sua arbitraria detenzione – spazzata sotto il tappeto, come si fa con la polvere nelle pensioni malfamate. Ecco che cosa è uno stato di polizia, che reprime ogni e qualunque manifestazione di dissenso, di critica, di testimonianza della verità. Altro che obbligo di vaccinazione per il personale sanitario…, che peraltro non è neppure alle viste da noi.

Qualcuno forse ricorderà come fu trattato, per quello che è trapelato dalle inflessibili maglie della censura cinese, il dottor Li Wenliang, l’oculista che per primo denunciò, inascoltato, alle autorità politico-sanitarie cinesi l’esistenza del Covid-19: venne minacciato, screditato e arrestato. Fu riabilitato poco prima di morire, il 6 febbraio scorso, quando Xi Jinping aveva ormai deciso un cambio repentino nella strategia di comunicazione cinese, scaricando i leader locali del partito e ammettendo tardivamente quello che già tutto il pianeta sospettava, ovvero che Wuhan fosse l’epicentro di un nuovo virus Sars. L’espressione «decidere la strategia di comunicazione», nel caso della Cina, va presa alla lettera. I vertici ordinano e tutti gli altri si adeguano, in un’invisibile ma infrangibile linea di comando. Poco importa che si tratti di dissidenti politici (come a Hong Kong), di miliardari di colpo ritenuti troppo indipendenti (come nel caso del Ceo di Ali Baba), di medici come Li o reporter cittadini come Zhang.
Nulla di nuovo sotto il sole: la libera circolazione delle idee, il confronto delle posizioni, anche di quelle eterodosse, purché fondate, costituiscono la sola fragile garanzia di verità. Non crediamo ai giornali o alle tv perché ci dicono quello che vogliamo sentire, perché dicono quello che già pensiamo o già sappiamo. Quando li consideriamo autorevoli è perché siamo consapevoli che in una società aperta, imperfetta ma ancora libera, le bugie hanno le gambe corte: non solo (e forse non tanto) per l’etica professionale dei suoi operatori, ma soprattutto per la competizione che li spinge a vigilare ognuno sugli altrui cedimenti alle logiche e alle pretese del potere, politico o economico che sia. Non è la migliore società del mondo e figuriamoci se i singoli mass media non possono finire ostaggio di questo o quell’interesse meglio organizzato. 

Ce lo ricordava con vigore Giorgio Galli, morto proprio domenica scorsa, che nei suoi ultimi libri instancabilmente ci ammoniva di come proprio dalle concentrazioni proprietarie transnazionali arrivassero, in questi decenni, le maggiori minacce alla libertà e alla democrazia. Ma il punto è che – in una società aperta – nessuno può controllare tutti i media e neppure tutte le fonti primarie di informazioni che li nutrono. Per questo dovremmo sempre ricordarci che «la libertà è la sola guardiana di se stessa».

Pensate a come gli Stati Uniti hanno malgestito la pandemia, persino nel nome di una malintesa libertà di non seguire le indicazioni delle autorità sanitarie. Decine di milioni di americani sono stati convinti dalle argomentazioni strampalate e interessate di Donald Trump. Ma alla fine, proprio la libertà del dibattito ha consentito di eleggere un presidente che cambierà rotta. Qualcosa di assolutamente impensabile nella Cina di Xi o nella Russia di Putin.

Guardiamo per un momento all’Italia, al governo nazionale e a quelli regionali. Dagli “avvocati del popolo” (e campioni di trasformismo), ai Grinch nostrani (dalla generosità sempre e solo in favore di telecamere), dagli ex enfant prodige (scarsi a costruire col Lego ma bravissimi a distruggere con l’Ego) alla sfilza di orgogliosi governatori: sappiamo che hanno sbagliato e sbaglieranno e che cercheranno, come inevitabilmente accade, di coprire i propri errori. Ma per quanto potenti possano essere le relazioni che vantano con questo o quel gruppo di interessi o editoriale, semplicemente non riusciranno mai a controllarli tutti. 

È nel conflitto che sta la sola tutela della libertà: ricordiamocelo anche quando, legittimamente, richiamiamo i decisori al perseguimento dell’interesse generale. Come suonerebbe stonata, e alla fine risulterebbe inutile, la campagna a favore della più massiccia e diffusa vaccinazione possibile, se si insinuasse il sospetto che essa rispondesse a direttive che provengono dall’alto, e non fosse invece – come è – il frutto di un libero convincimento che nasce da ben documentate argomentazioni. Come sarebbe ben più difficile contrastare le tesi di negazionisti, no-vax e diffidenti a vario titolo, se i tanti indecisi – per paura, scetticismo, o scarsa informazione – potessero dubitare che invece fosse il risultato di sollecitazioni esterne a un pubblico e libero dibattito. Ricordarselo è il miglior tributo che possiamo rendere a Zhang Zhan.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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