​Cecilia Lavatore

Il “patto” mancato/ Quel dialogo che manca tra prof e famiglia

di ​Cecilia Lavatore
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Martedì 22 Agosto 2023, 00:11

«E se ci fanno causa?». Questa una delle frasi più frequenti durante gli scrutini dei consigli di classe.  Ma che fine ha fatto il patto educativo?  Ce lo chiediamo in tanti e in tanti proviamo a ricostituirne le premesse da dentro le aule delle scuole italiane. L’alto numero di azioni legali intraprese contro le decisioni dei professori è un chiaro indice della frattura che viviamo nella già fragile alleanza scuola-famiglia, una delle questioni aperte della nostra società. Questa alleanza è importante per la crescita intellettuale e cognitiva dello studente, tuttavia lo è anche e soprattutto per la sua crescita umana. I punti di riferimento che i giovani hanno nel mondo adulto dovrebbero essere allineati, stabili, possibilmente coerenti e non in contraddizione tra loro. La saldatura dovrebbe fare da argine e da porto e tracciare una mappa di regole e di valori nel difficile e travagliato viaggio di formazione, reso ancora più complesso dai dolori e dalle sfide della nostra epoca.


Intraprendere le vie legali vuol dire che la comunicazione tra le due agenzie educative si è interrotta troppo presto, significa che non c’è stato ascolto né fiducia: per quanto diversi possano essere un genitore e un professore, il confine tra i loro ruoli dovrebbe essere tanto marcato quanto aperto all’incontro e allo scambio. E questa è una responsabilità nei confronti del minore, è una questione di rispetto verso il destinatario della formula educativa. Noi docenti lo impariamo nei lunghi anni di studio che ci portano alla cattedra. I genitori dovrebbero arrivarci con il sacrosanto buon senso. Spesso il grande assente nei nostri colloqui con le famiglie. Famiglie, del resto, convinte di conoscere perfettamente i loro figli, figli che spesso si rivelano piuttosto dei perfetti sconosciuti una volta varcata la soglia di casa. Ma la preadolescenza e l’adolescenza sono luoghi nei quale notoriamente i misteri dell’animo umano si infittiscono ed ammetterlo, ammettere di avere dei limiti come adulti e ammettere di avere dei figli con dei limiti, potrebbe solo aiutare.

Se chiedessero a un insegnante di sostituire un Magistrato nell’aula di un tribunale probabilmente non saprebbe da dove cominciare. Ma è vero anche il contrario: i delicati equilibri di un’aula scolastica sono altrettanto inaccessibili per chi non ne fa quotidiana esperienza.


Invece, il lavoro del docente sembra essere ormai appannaggio della comunità intera, c’è sempre qualcuno che è convinto di saperlo svolgere meglio di noi. Dai genitori in primis, agli psicologi, agli avvocati, fino ai giudici: le ingerenze nella nostra professione sono ampiamente sdoganate. Chiunque può aprire interrogativi sul nostro operato, magari perché troppo severo o scarsamente empatico o non sufficientemente attento alle esigenze del singolo studente. A colpi di certificati per i Bisogni Educativi Speciali vengono mandati avanti migliaia di ragazzi fino alla fine di percorsi scolastici spesso non adeguati alle loro reali capacità. Studenti che si troveranno inevitabilmente, presto o tardi, a dover affrontare un mondo nel quale a nessuno importa dei loro percorsi protetti e personalizzati. Insomma, il cosiddetto “futuro del Paese”, tra ostacoli e resistenze, è ancora affidato agli insegnanti per una media di cinque ore al giorno e per dieci mesi all’anno, eppure, le nostre scelte sono costantemente messe in discussione, iper analizzate, di frequente criticate. In alcuni casi giunti in tribunale, come quest’ultimo nella scuola di Guidonia, addirittura annullate.


Noi docenti siamo oggi abituati ad accogliere queste continue provocazioni, fa parte del nostro mestiere per come questo si delinea nell’età contemporanea, ma c’è un’intera generazione di insicuri lì fuori che, ultra protetta dall’indulgenza di famiglie incoscienti, non si abituerà mai alla preziosa eventualità di un fallimento.
 

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