Alberto Brambilla*
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Misure a confronto/Il governo del sociale con i criteri delle aziende

Misure a confronto/Il governo del sociale con i criteri delle aziende
di Alberto Brambilla*
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Venerdì 26 Febbraio 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 22:04

Globalizzazione, paesi senza rispetto dei diritti civili e sociali, migrazioni, dazi, disoccupazione, aumento della spesa assistenziale, aumento del welfare, rischi per la coesione sociale e investimenti socialmente responsabili con i criteri Esg. Che cosa hanno in comune tutte queste tematiche?

Apparentemente nulla, ma se ci soffermiamo a riflettere per qualche minuto,  scopriamo che questi temi sono fortemente legati tra loro e l’adozione da parte dei governi di scelte  politico-commerciali simili ai criteri Esg in uso per la valutazione e gli investimenti nelle imprese, farebbero fare un enorme salto di qualità al nostro modello sociale e di produzione. Imboccheremmo la “terza via”, quella del capitalismo solidale, una evoluzione dei modelli capitalisti e socialisti nelle loro varie declinazioni. Cosa sono i criteri Esg? Environmental Social Governance è l’acronimo di un metodo che è sempre più utilizzato nel settore degli investimenti finanziari per valutare l’impatto ambientale, sociale e di governance delle imprese nella gestione del loro business. Un criterio che consente di premiare con l’investimento solo le aziende che nello svolgimento della loro attività tutelano l’ambiente, rispettano i loro lavoratori, i fornitori, i clienti attraverso una gestione (la governance) socialmente responsabile e non basata solo sul profitto.


Se allargassimo la valutazione Esg non solo alle imprese ma anche ai governi dei vari Paesi che non rispettano l’ambiente, i diritti umani, i lavoratori e i loro cittadini, la società intera farebbe un enorme salto di qualità, con vantaggi sia per i cittadini dei Paesi che già li applicano ma anche per quelli dei Paesi che subiscono la privazione di quei diritti. Se poi l’azione fosse condivisa da tutta l’Europa nei confronti dei Paesi con cui si hanno robusti scambi commerciali, si risolverebbero anche gran parte dei problemi che abbiamo elencato quali migrazioni, disoccupazione, spesa e coesione sociale.
Facciamo qualche esempio. Nel mondo ci sono situazioni di gravi violazioni dei diritti e delle libertà civili e spesso, come accade in Birmania, Venezuela o Bielorussia a favore della “casta” dei militari o dei grandi proprietari terrieri o di vicini ingombranti come la Russia per la Bielorussia. Più vicini a noi i casi di Libia, Siria, Iran, Libano, gran parte dell’Africa sub sahariana o Afganistan. La prima reazione delle popolazioni colpite da guerre civili o dittature è, ove possibile, fuggire in altri Paesi più sicuri e con un tasso di democrazia accettabile provocando massicce migrazioni che inesorabilmente diventano il business dei mercanti di esseri umani e delle più feroci organizzazioni criminali. Risultato, troppi morti nei “viaggi della speranza”, spoliazione di capitale umano nei Paesi d’origine che quindi riprodurranno anche per le generazioni future miseria, ignoranza e povertà, oltre ad enormi problemi di integrazione ed economici per i Paesi di approdo.


Ora è evidente che, soprattutto in una situazione di precarietà come quella attuale, compromessa dalla pandemia, anche un 2% di popolazione in più crea problemi viste le scarse risorse e l’elevata disoccupazione. Ben che vada i nuovi venuti finiscono facilmente nelle grinfie delle associazioni criminali. Se invece l’Europa, ma anche gli Stati Uniti e il Giappone applicando i criteri “Esg politici” decidessero di non vendere più armamenti e rifornimenti a questi governi, sanzionando i patrimoni personali di questi dittatori e facendo lo stesso con i paesi antidemocratici che vivono e fanno business con queste dittature (si veda l’emblematico caso della Somalia), le cose migliorerebbero molto e forse quelle popolazioni, magari con l’aiuto delle Nazioni Unite, resterebbero nei loro luoghi d’origine (si veda il caso della Siria).
E qui arriviamo al problema della disoccupazione indotta anche da una eccessiva globalizzazione e delocalizzazione che mina la coesione sociale e genera una enorme spesa assistenziale; e guarda caso i Paesi con i quali si fanno più affari, attratti dall’illusorio vantaggio economico (un profitto non Esg) sono quelli che generano migrazioni o che, impedendole, rendono privi di diritti civili e sociali molte donne, uomini e spesso anche bambini.

Dove si trovano i prodotti tessili e di abbigliamento al prezzo più basso? In Vietnam, Bangladesh, Birmania, Thailandia, Etiopia, Cina e paesi dell’Est dove, come è noto, la democrazia non è di casa. Tutti Paesi che producono a basso costo anche grazie al fatto che non investono un solo euro nella preservazione dell’ambiente ignorando completamente la tutela dei lavoratori. Risultato: risparmieremo sugli acquisti, spendendo assai meno di quanto si dovrebbe per manufatti prodotti in casa, e poi? Poi spendiamo pesanti punti di Pil per la spesa assistenziale (114 miliardi nel 2019), creando nei nostri settori di punta alti livelli di crisi e disoccupazione. Non sarebbe meglio produrre da noi, agevolando le operazioni di rientro di queste produzioni con vantaggi in termini di occupazione e diminuzione della spesa per sussidi?

Tanto per capirci, tutti gli strumenti per la salute (prova pressione, febbre, saturimetri eccetera) ormai sono prodotti in Cina: ma è razionale tutto ciò? Inoltre, senza i nostri soldi i governi che hanno messo al bando il concetto di democrazia non avrebbero le risorse per pagare le “caste” che li sostengono e per fornire armi ai paesi che controllano, liberando così anche quelle popolazioni dal giogo delle dittature.


Applicando i criteri Esg a tutti i livelli della convivenza sociale e dell’economia, otterremmo risultati di gran lunga superiori rispetto alle sanzioni economiche, che ora comminiamo non sempre a proposito, talvolta calpestando stoltamente la ragion politica.


*Presidente Itinerari  Previdenziali

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