Ma l’astensionismo si deve combattere anche in altri modi

di Alessandro Campi
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Martedì 17 Maggio 2016, 00:31
La proposta del ministro Alfano di votare per le amministrative e il prossimo referendum di ottobre in due giorni, com’è stato a lungo in passato, alla fine non è passata. Sembrava ci fosse un accordo di massima, nel governo e tra le forze politiche, ma le polemiche che l’annuncio aveva comunque scatenato alla fine hanno prevalso. Quella di sprecare denaro pubblico è l’accusa che nessun politico oggi può sopportare. Secondo Alfano non si sarebbero spesi i 120 milioni di euro conteggiati dagli avversari del progetto, ma cinque per le amministrative e circa diciotto per il referendum. Troppi comunque, in tempi di antipolitica dilagante.

La proposta aveva, almeno a livello di intenzioni, un fondo di buon senso e di sano realismo. Molti italiani, di loro già assai disincantati e indisciplinati, per di più parecchio di cattivo umore da qualche anno a questa parte, difficilmente si fanno prendere dai dubbi se si tratta di scegliere tra una bella giornata al mare e due ore di fila dinnanzi ad un seggio. Potevano porsi il problema quando c’erano i partiti e le ideologie, dunque qualcosa in cui credere e per cui battersi, o più prosaicamente quando c’era qualcosa da sperare o da attendersi da colui al quale si concedeva il proprio consenso, ma oggi il disimpegno è la regola o comunque la tentazione.
 
Votare anche il lunedì mattina, nella proposta di Alfano, avrebbe consentito di riportare qualche elettore in più in alle urne, contribuendo così al contenimento dell’astensionismo crescente. Ma la misura avrebbe davvero funzionato secondo gli auspici? Forse sì, anche se a questo punto ci mancherà la controprova. Ma resta da capire se, considerato il clima d’opinione che si registra in molte democrazie, basti un aumento percentuale dei votanti per poter parlare di una ripresa della partecipazione politica e del ritorno ad un rapporto nuovamente o minimamente virtuoso e fiduciario tra i cittadini e le istituzioni della democrazia rappresentativa.

L’astensionismo elettorale, come sia sa, non è un problema italiano, imputabile per di più ad un’antropologia che storicamente pare inclinare al privatismo o alla diffidenza verso tutto ciò che è sfera pubblica. Se così banalmente fosse non si spiegherebbero i picchi di partecipazione conosciuti dall’Italia nei primi decenni della storia repubblicana. È invece un problema odierno di molti regimi democratici, che pagano con la fuga dalle urne di milioni di elettori – non più astensionisti o protestatari occasionali, ma secessionisti veri e proprio dal gioco democratico – le loro promesse non mantenute, il loro ripiegamento verticistico e oligarchico, la loro disarticolazione e frammentazione interna (al limite del patologico nel caso italiano) e il drammatico abbassamento della sua qualità in termini non solo di prestazioni (ad esempio nel contrastare la crisi economica), ma di dibattito e stile.

Pensando proprio a quest’ultimo dato – il modo con cui i politici comunicano e parlano, tra di loro e quando si rivolgono ai loro elettori e governati – viene anzi da chiedersi non perché così tanti cittadini, sopraffatti dal disgusto, abbiano smesso di votare, ma perché ancora così tanti si ostinino coraggiosamente a farlo. Dacché, per essere più vicini al sentimento della gente, i leader o aspiranti tali hanno dismesso l’arte antica della retorica politica per votarsi al gergo quotidiano dell’uomo supposto medio, si è registrato – ed è paradossale – un distacco crescente dei cittadini dalla dimensione pubblico-politica.

A furia di volgarizzare, banalizzare, scandalizzare, semplificare, con l’idea di essere così più diretti, immediati e semplici, si è come generato un moto di ripulsa invece che di attrazione, che forse dovrebbe spingere i professionisti della politica a rivedere le proprie strategie comunicative. Davvero la sguaiataggine populista o la comunicazione in pillole (televisiva o attraverso i social) è il modo migliore per risvegliare nelle persone l’interesse per la politica o per rendersi credibili e autorevoli agli occhi degli elettori? L’impressione è che le democrazie abbiano come imboccato una strada che sta contribuendo drammaticamente ad (auto) delegittimarle, come se già non bastassero i fattori che le aggrediscono e condizionano dall’esterno: dai potentati tecnico-finanziari che ne stanno svuotando la sovranità al ruolo sempre più discrezionale della magistratura, per non dire di come i media governano il dibattito pubblico secondo logiche scandalistiche.

E visto che parliamo di esiti paradossali, colpisce anche che il calo crescente dei votanti e dei cittadini interessati ad esprimere il proprio voto si accompagni ad un aumento abnorme degli aspiranti ad una candidatura e dunque ad un incarico o ad una poltrona qualche che sia. Nel mentre la politica vede ridursi la sua sfera d’intervento e il suo prestigio sociale, oltre che le sue risorse materiali ed economiche, è curioso registrare l’assalto alla diligenza del potere da parte di quelle che, almeno nell’esperienza italiana e specie se vista dalle articolazioni periferiche della nostra struttura di rappresentanza, appaiono davvero terza o quarte fila di quella che un tempo si definiva classe politica.

Per le prossime amministrative, per restare all’esempio italiano, si sono presentate così tante liste farlocche e sono scesi in campo così tanti contendenti improbabili (di nessuna esperienza se non, molto spesso, di assai dubbia reputazione) da chiedersi appunto perché un cittadino che abbia una media stima di sé e una residua considerazione per la sfera istituzionale debba accettare di partecipare anche solo come votante alla competizione. Non è tanto la consapevolezza di essere col proprio voto statisticamente irrilevante (se così fosse la democrazia non avrebbe futuro), quanto quella di prendere parte ad una battaglia al ribasso nella quale non si confrontano progetti alternativi di governo, ma leader che si affidano unicamente alla loro capacità di trascinamento mediatico, quando va bene, o semplici consorterie affaristiche, quando va male. E spesso – nell’Italia odierna – va male.
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