Vittorio E. Parsi
Vittorio E. Parsi

L’ultima occasione/ Ora la sfida è trasformare quei miliardi in riforme

di Vittorio E. Parsi
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Mercoledì 22 Luglio 2020, 00:02
Risorse per 209 miliardi di euro a disposizione per evitare che le conseguenze economiche della pandemia decretino l’affossamento definitivo del Paese: si tratta di un’opportunità, forse l’ultima, per riscrivere il futuro dell’Italia e chi parla di «fregatura grossa come una casa», semplicemente, potrebbe avere frainteso.
Piaccia o meno, Giuseppe Conte è riuscito nell’impresa, tutt’altro che scontata, di ben servire l’interesse nazionale italiano e quello dell’Unione Europea, alla quale apparteniamo, aiutando a far ritrovare dallo stesso lato della barricata tanto la Commissione quanto i quattro grandi d’Europa: Germania, Francia, Italia e Spagna. 
Senza questo allineamento la cosa non sarebbe stata possibile.

Che l’asse Berlino-Parigi resti centrale in qualunque configurazione europea lo capisce quasi chiunque e, di sicuro, chiunque sia in buona fede. Ma non era per nulla detto dove si sarebbero collocate Francia e Germania. Soprattutto ad Angela Merkel occorreva una posizione che fosse difendibile dagli attacchi dei sovranisti interni ma che offrisse anche una prospettiva dinamica rispetto allo stato dell’Unione nei confronti dei “neo-sovranisti frugali”. A trattati vigenti, quello concordato a Bruxelles all’alba di ieri è stato il massimo che si potesse ottenere. Certo, ha messo in evidenza come il ruolo degli Stati sovrani resti determinante anche dentro l’Unione Europea. 

Ma fa una bella differenza se la sovranità è utilizzata per costruire o per distruggere, traguardando il futuro o arroccandosi nel passato, per dare respiro all’Unione e ai suoi Stati membri o per gettare via l’acqua nella futile convinzione che i pesci staranno meglio. Il peso dei” big four” tra venerdì sera e martedì mattina è stato impiegato per far prevalere la solidarietà europea e la possibilità per la Ue di evolvere e quindi sopravvivere, chiarendo anche che se non cambiano lo spirito e le istituzioni, il futuro sarà semplicemente fuori portata per tutta l’Unione. Se avessimo concorso a far fallire il vertice, avremmo legittimato nel nome del sovranismo nostrano quello altrui. E saremmo tornati a casa senza 209 miliardi di euro e senza più poter fare appello a nessun sentimento di comune solidarietà, anche se, certo, avremmo potuto continuare a berciare contro “l’Europa matrigna” e a lanciare proclami tanto roboanti quanto inconsistenti. Una ben magra e costosa soddisfazione.

Vorrei inoltre ricordare che la solidarietà verbale era facile durante la chiusura forzosa, nella cosiddetta fase 1 della lotta alla pandemia. Tutto è molto più difficile ora, e ancora di più lo sarà nelle fasi successive, nella lenta, difficile e incerta costruzione di una nuova normalità, in cui potremmo dimenticare che competere non significa prevaricare, che il rispetto delle regole aiuta e non ostacola il gioco, che perseguire i propri interessi a costo della distruzione dell’interesse generale è un atto di stupido autolesionismo. È una tentazione forte, che vale per la movida sregolata, per le relazioni tra Stati e tra soggetti economici e persino per la lotta politica interna. Ed è la tentazione alla quale dovremo saper resistere.

Adesso si apre la sfida per noi più difficile: riuscire a tramutare rapidamente quelle risorse che non abbiamo ma sono disponibili in piani effettivi che ancora mancano. Senza i secondi perderemo le prime. Occorre fare bene e in fretta. Bisogna riuscire a declinare un’ordinata creatività, seppellendo lo spirito di fazione e dimostrando concretezza all’interno di percorsi che debbano essere e apparire logici, rispettosi delle regole e ben coordinati anche agli altri, non solo a noi. Dobbiamo farlo con una burocrazia che non a caso ci viene chiesto di riformare, così come il sistema di valutazione del contenzioso che spesso consente l’impunità tanto dell’arbitrio quanto dell’inazione, quanto persino della prepotenza. Dobbiamo investire affinché la ricostruzione post-Covid 19 ci consenta di trasformare radicalmente l’Italia, così che l’ammirazione prenda il posto della diffidenza negli occhi di chi ci guarda. Per riuscirci non servono a nulla vanagloriose rivendicazioni della specificità italiana, ma occorrerà la capacità di stupire i critici, come avvenne nel Rinascimento, in cui la grandezza italiana fu innanzitutto riconosciuta senza che occorresse rivendicarla.

Olandesi, austriaci e compagnia saranno pure arcigni e ingenerosi nell’atteggiamento nei nostri confronti, marcato da venature di profondo pregiudizio: peraltro non dissimili da quel disprezzo che per decenni ha alimentato gli stereotipi padani verso il Mezzogiorno e “Roma ladrona”. Ma la diffidenza dei neo-sovranisti frugali è alimentata dalle nostre scarse capacità attuative e trasformative troppo spesso dimostrate: questo è il nemico interno che dobbiamo sconfiggere, sta a noi non offrire pretesti perché altri tirino il “freno d’emergenza”.
 
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