Italia al bivio: ultima chiamata per le riforme

di Giuliano da Empoli
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Martedì 30 Dicembre 2014, 23:09 - Ultimo aggiornamento: 31 Dicembre, 00:16
C’è una scena di Interstellar, il bel film di Christopher Nolan, in cui il capitano della navicella spaziale deve decidere se tornare indietro - e riabbracciare i suoi cari - o andare avanti e rischiare di non rivederli mai più per portare a termine la sua missione. Fatte le dovute proporzioni - e scontato l'inevitabile lirismo dell’editoriale di fine anno - è un po’ la situazione dell’Italia alla vigilia del 2015.

Al di là delle apparenze, le opzioni sono solo queste due: il ritorno al calore rassicurante del focolare domestico. O l’ingresso in una dimensione nuova, ad oggi inesplorata. La prima è quella che non ci auguriamo. Coincide con la ripresa dell’ennesimo ciclo di riforme abortite (o realizzate a metà, o solo sulla carta) che ha contraddistinto il percorso della Seconda Repubblica. Luciano Cafagna lo chiamava «il complesso della culla». È l’insieme di rifondazioni, di finte partenze, di bicamerali e di costituenti che hanno segnato gli ultimi vent’anni. Un moto apparente che ha mascherato l’immobilismo più completo, celebrando il divorzio tra la politica e la realtà. In uno scenario di questo genere, il percorso delle riforme costituzionali si interrompe, quello delle altre - lavoro e pubblica amministrazione in primis - si impantana nella palude degli emendamenti e dei provvedimenti attuativi, e diventa inevitabile lo sbocco di sempre: l'ennesima campagna elettorale. Ancora una battaglia campale. Ancora un’“ora X” dopo la quale - ci diranno - si spalancheranno finalmente i cancelli di un paradiso di abbondanza.



È il ritorno al focolare, la cronaca degli ultimi vent’anni, la tragicommedia di un sistema politico che si accapiglia per le sdraio sul ponte del Titanic. Le scelte vere sempre rinviate in nome di qualche questione preliminare. Le responsabilità diluite nel calderone dei veti incrociati e degli scambi di accuse.

L’alternativa è una strada stretta. Consiste nell’andare avanti. Nel portare a compimento il ciclo di riforme avviato nel corso dell’ultimo anno. E nel provare a capire se è possibile ristabilire un contatto tra la politica e la realtà. È una scommessa un po’ folle, me ne rendo conto.



Alla metà degli anni Sessanta, Pietro Nenni si lamentava già di essere entrato nella stanza dei bottoni e di non averceli trovati. Oggi, in tempi di farfalle che battono le ali in Australia provocando uragani al Polo Nord, sono rimasti in pochissimi a credere nell’idea che la politica possa produrre un impatto sulla realtà. Eppure tutti gli studi continuano a dimostrarci che, sul lungo periodo, la qualità della governance rimane il fattore decisivo nel determinare il livello di benessere delle nazioni. Assai più delle risorse naturali o di qualsiasi altro fattore.

Nel corso degli ultimi vent’anni l’Italia non si è impoverita a causa di un inesorabile destino avverso (la globalizzazione, il declino, la Cina…).



È andata indietro perché le sue classi dirigenti non hanno avuto la capacità di interpretare i mutamenti in corso e di tracciare una rotta credibile. Allora, hanno preferito buttarla in caciara, dando vita allo spettacolo infinito delle rifondazioni e delle scissioni, dei girotondi e dei predellini: il reality-show del potere.

Oggi qualcosa è cambiato. Per la prima volta da molti anni il governo ha tracciato una rotta. Lo ha fatto con una serie di provvedimenti in materia istituzionale e - soprattutto - con le riforme del lavoro e della pubblica amministrazione. L'effetto politico di queste iniziative è stato dirompente: l’implosione completa del quadro politico. Un big bang paragonabile alla discesa in campo di Berlusconi vent’anni fa. Solo che, questa volta, è il centrodestra ad essere costretto all’inseguimento di un avversario che ha ridefinito le regole del gioco e rispetto al quale il rischio è quello di definirsi solo in negativo, senza riuscire ad articolare un’alternativa in positivo.

La riforma del lavoro, in particolare, è stata il banco di prova decisivo.



La miccia che il governo ha utilizzato per dinamitare una volta per tutte le vecchie trincee del ventennio berlusconiano e per riarticolare il quadro intorno alla centralità della propria proposta politica. Gli effetti sul piano concreto sono stati finora limitati, com’è naturale che sia. Perché questi si comincino a vedere ci vuole il tempo di completare le riforme e la legislatura. E, soprattutto, il tempo di misurarne le conseguenze. Ma il tempo, com’è noto, è proprio la cosa che l’instabilità del nostro sistema istituzionale non concede quasi mai.



Ecco perché il 2015 sarà l’anno di Interstellar. Si tratterà di capire se siamo di fronte all’ingresso in una nuova dimensione - quella della politica che riprende a produrre un effetto sulla realtà - oppure se siamo ancora imprigionati nella bolla della politica che si occupa di se stessa, anziché dei risultati.

Nel primo caso il 2015 sarà un anno di lavoro e del Lavoro. L’occasione, per il governo, di dispiegare fino in fondo la propria capacità riformatrice (dal Jobs act ai conti pubblici) e di registrare i primi effetti concreti sui quali essere misurato. E quella, per il centrodestra, di ricostruire una proposta politica in positivo, che non sia solo il frutto del disorientamento e della stizza. Altrimenti, il 2015 sarà l'ennesimo ritorno al passato. Una campagna elettorale fatta quasi solo di promesse - o peggio - di paure. E l’attesa infinita di un mondo migliore che è sempre al di là della siepe. Apparentemente a portata di mano, ma di fatto intrappolato in una dimensione parallela e irraggiungibile.