Le prime fotoreporter in guerra senza paura

Le prime fotoreporter in guerra senza paura
di Valeria Arnaldi
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Sabato 25 Settembre 2021, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 16:51

«Il mio ritmo di lavoro era complicato dal fatto che praticamente ogni allarme aereo mi coglieva mentre sviluppavo tre o quattro pellicole. In genere, mi nascondevo sotto il letto con il cronometro in mano aspettando che le guardie finissero l'ispezione per tornare alla vasca prima che la pellicola potesse rovinarsi». Così Margaret Bourke-White, newyorkese, classe 1904, unica esponente della stampa estera in Russia quando fu invasa dai tedeschi, raccontava quei giorni, tra foto sviluppate nella vasca, pellicole appese ad asciugare, bombardamenti. Pioniera del fotogiornalismo, Maggie l'indistruttibile, come la ribattezzarono i colleghi di Life, è stata la prima donna accreditata dall'esercito Usa sui teatri di guerra.
L'ARCHIVIO
A ripercorrere la sua storia è la mostra Prima, donna. Margaret Bourke-White, a cura di Alessandra Mauro, fino al 27 febbraio, al Museo di Roma in Trastevere, con oltre cento immagini dall'archivio Life di New York, dai primi lavori sulle acciaierie agli scatti aerei, dai reportage per Fortune e Life, appunto, al ritratto di Stalin, fino alla guerra. Fu tra i primi a entrare a Buchenwald, dopo la liberazione. «In quei giorni - confidò - la macchina fotografica era quasi un sollievo, inseriva una sottile barriera tra me e l'orrore che avevo di fronte», si legge in un passo autobiografico, nel catalogo Contrasto. Margaret cercava la notizia, la inseguiva, assicurandosi di essere il più possibile vicina alla scena, per mostrare la realtà, pure cruda e dolorosa, dei fatti. Per lei fu disegnata la prima divisa da corrispondente di guerra. Furono tante, poi, a indossarla. Donne determinate, pronte a documentare la storia e decise a scardinare stereotipi e pregiudizi, inclusi quelli di una professione ritenuta maschile. E sì che gli esempi c'erano.
LA COMBATTENTE
È settecentesco il primo resoconto di guerra scritto da una donna: Frederika Charlotte Louise von Massow, accompagna il marito, generale, nella campagna di Saratoga, tenendo un diario degli accadimenti. E nell'Ottocento, Margaret Fuller, per il New York Tribune, documenta gli scontri per la Repubblica Romana.
La vicinanza è regola anche per Gerta Pohorylle, nota come Gerda Taro, nata a Stoccarda, nel 1910. Compagna di Endre Erno Friedmann, ossia Robert Capa, pseudonimo che inventano insieme. A ventisei anni parte con lui per raccontare la Guerra civile spagnola. Documenta gli scontri e le donne che combattono. Il suo obiettivo immortala le poche miliziane che riesce a incontrare: possono combattere e morire per il loro ideale, ma devono farlo nelle retrovie, così è deciso. Gerda vuole mostrare i loro visi, il loro valore. Muore travolta da un carro armato, sul fronte di Albacete, durante un reportage. Sull'ultima foto che le viene scattata, in ospedale, si legge «Mrs Frank Capa». Ben più dell'errore - è Robert non Frank - a colpire è la scelta: la combattente dell'obiettivo è ricordata come compagna del fotografo, dimenticando il suo percorso, perfino la causa della morte, ossia voler essere nel cuore della storia. La sua figura sarà tra quelle indagate nella mostra Le donne e la fotografia, dall'8 ottobre al 28 novembre, a Milano, alla Fondazione Luciana Matalon.
Non ha ancora ventotto anni, Clare Hollingworth, classe 1911, giornalista del Daily Telegraph, quando comunica al mondo l'invasione tedesca della Polonia e l'inizio della seconda guerra mondiale: «Mille carri armati ammassati al confine con la Polonia. Dieci divisioni sono pronte per colpire» è il titolo in prima pagina. «Quando morirò andrò in Paradiso perché su questa terra ho vissuto all'Inferno. Vietnam, 1967», dichiarò Oriana Fallaci, nata nel 1929, morta nel 2006. Corrispondente per l'Europeo, si recò in Vietnam dodici volte in sette anni. «Io sono qui per provare qualcosa in cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre», scrisse.
LE VITTIME
La regola di Marie Colvin, nata nel 1956 e uccisa nel 2012 mentre seguiva l'assedio di Homs, in Siria, era: «Non avere paura di avere paura». Anche lei, sempre al centro dell'azione. Perse l'occhio sinistro per l'esplosione di una granata nella guerra civile dello Sri Lanka. La ferita non la fermò. «Il mio lavoro è testimoniare», affermava. Anna Politkovskaja, nata nel 1958 e uccisa nel 2006, ha denunciato gli orrori della guerra in Cecenia. Più colpi d'arma da fuoco alla schiena: così, secondo quanto dichiarato dai medici legali, è stata assassinata, nel 2001, Maria Grazia Cutuli, nei pressi di Sarobi, sulla strada per Kabul. Insieme a lei hanno trovato la morte altri tre giornalisti. Inviata del Corriere della Sera, aveva 39 anni. Stava lavorando a «una storia forte», aveva detto. Lo stesso giorno dell'assassinio, sulle pagine del giornale, un suo articolo su un deposito di gas nervino nella base di Osama bin Laden.
Camille Lepage è stata uccisa, a 26 anni, durante la Seconda guerra civile nella Repubblica Centrafricana nel 2014. Poco tempo prima, su Instagram aveva scritto: «Voglio creare empatia con le mie foto, voglio che tutti quelli che le guardano provino vergogna per quei governi che permettono l'accadere di queste cose». Alison Baskerville, diplomatasi nel 1996, ex sergente Royal Air Force, fa della sua esperienza strumento per una nuova narrazione della guerra, puntando l'obiettivo anche su tematiche di genere e identità femminile nelle forze armate. Perché la strada da fare è ancora lunga. «Quando raggiungi un certo livello di professionalità - diceva Bourke-White - non è più una questione di essere uomo o donna». O almeno, non dovrebbe.

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