Riccardo De Palo
Lampi
di Riccardo De Palo

Philippe Lançon, sopravvissuto alla strage di Charlie Hebdo, racconta il suo calvario

Philippe Lançon
di Riccardo De Palo
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Venerdì 3 Gennaio 2020, 17:40
Raccontare l'indicibile, dare voce all'orrore e, assieme, prendere le distanze dalla vita di un tempo, che non tornerà mai più: è questa la missione che si è prefisso Philippe Lançon scrivendo il suo fulminante memoir, La traversata, da mercoledì prossimo nelle librerie per e\o: in Francia, dove ha venduto 350 mila copie e ha vinto il premio Fémina, è stato un caso editoriale. L'autore è uno dei pochi sopravvissuti all'attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo, di cui il 7 gennaio ricorre il quinto anniversario. 

Quell'assalto di un commando di due uomini armati (i fratelli Kouachi), nella stanza in cui si stava svolgendo la settimanale riunione di redazione, sconvolse la Francia ed aprì una nuova stagione di terrore in Europa; ma mobilitò anche tutte le persone di buon senso - non soltanto francesi - in difesa della libertà d'espressione. Dodici furono i morti (quasi tutti i giornalisti), undici i feriti. In quei giorni colmi di commozione, tutti volevano testimoniare la propria solidarietà, dicendo semplicemente: Je suis Charlie.

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Lançon - che è anche un reporter di Libération, inviato di guerra, cronista e critico per molti versi estraneo allo spirito caustico di Charlie - ripercorre le ore immediatamente precedenti a quell'assalto mortale. Gli sembra di rivedere il dramma di Shakespeare a cui aveva assistito la sera prima, La dodicesima notte: avrebbe dovuto scriverne la recensione; non lo farà mai. Cerca gli appunti, perduti come ogni altra cosa quel giorno, sperando di trovare un segno, un presagio, una spiegazione. Ricorda il romanzo di Michel Houellebecq, uscito proprio quel 7 gennaio, Sottomissione. Un libro in cui si immagina l'ascesa al potere in Francia dei Fratelli Musulmani, che aleggia come uno spettro in tutto il racconto. «Perché ormai - scrive Lançon - la figura di Houellebecq si mischia al ricordo dell'attentato»; per quelli che sono sopravvissuti alla furia degli assassini, «è un'esperienza intima».
L'autore ripercorre il suo viaggio al termine della notte, il percorso in bicicletta, con lo zainetto regalatogli dal figlio di uno scrittore ucciso dai paramilitari a Medellín, con in tasca una frase di Borges: «Siamo già l'oblio che saremo». Bernard Maris, uno dei giornalisti di Charlie che tra poco cadranno sotto i colpi dell'Isis, sollecita una recensione di Sottomissione, ma lui declina: l'ha già fatto per Libération. Wolinski disegna sorridendo, il caricaturista Cabu mugugna, Stéphane Charbonnier (detto Charb) discute, Tignous e Maris litigano su Houellebecq: «Come abbiamo potuto lasciar andare a questo punto le periferie?». Solo per un caso Lançon, che deve andarsene per scrivere la sua recensione, si attarda a chiacchierare.

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L'attacco avviene all'improvviso, non dura più di due minuti. La guardia del corpo del direttore prova ad estrarre la pistola ma i due uomini del commando sono più veloci e scatenano l'inferno, urlando Allah Akbar ad ogni raffica. Il collaboratore del giornale, che aveva sprecato l'occasione per andarsene, finisce a terra, tra i corpi dei colleghi agonizzanti. Sente del sangue sul volto: è anche il suo. Tignous, riverso senza vita sul tavolo, è come congelato: regge ancora tra le dita la sua matita.

Lançon resta immobile, i terroristi se ne vanno perché lo credono morto, ma è orrendamente ferito. Le pallottole gli hanno colpito le braccia, le mani; e, soprattutto, gli hanno distrutto parte della faccia. Non sente dolore, non si rende ancora conto di cosa sia successo; e quando i soccorritori arrivano per condurlo in ospedale, il suo primo pensiero va ancora allo zaino, all'aereo che avrebbe dovuto prendere per andare a New York dalla fidanzata.

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Lançon paragona il suo viaggio, il suo calvario successivo in ospedale, alla nave di Robinson Crusoe che fa naufragio. È sfigurato, e ci vorranno quindici interventi per ricostruire la mascella inferiore; la chirurga Chloe, e il fratello che lo assiste, sono l'unico appiglio con il mondo esterno. Ripercorrere a ritroso le vie della memoria diventa, per lui, una forma di terapia; poiché in simili momenti tutto ciò che resta è «indagare sulle tracce di una vita brutalmente interrotta». Ogni aspirazione umana, ogni mania di grandezza, diventano poca cosa rispetto all'orrore che si sta vivendo. Il ritorno a casa è fonte di emozione, ma anche di stupore. Uscire è una sensazione raggelante: «Avevo la sensazione che se mi fossi allontanato troppo mi sarei perso e non sarei più tornato».
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