In Eritrea pugno duro del regime, un vescovo cattolico e due preti arrestati: la denuncia dei missionari comboniani

In Eritrea pugno duro del regime, un vescovo cattolico e due preti arrestati: la denuncia dei missionari comboniani
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Mercoledì 19 Ottobre 2022, 11:35 - Ultimo aggiornamento: 20 Ottobre, 10:46

Città del Vaticano – I missionari comboniani di Nigrizia – la storica rivista dell'ordine religioso più diffuso in Africa - ha rivelato tutti i retroscena del rapimento del vescovo di Segheneiti, in Eritrea, monsignor Abune Fikremariam Hagos. L'uomo è stato arrestato il 15 ottobre scorso all’aeroporto internazionale di Asmara da agenti dei servizi di sicurezza mentre rientrava nel paese dopo un viaggio in Europa. La notizia del suo arresto è stata diffusa solo due giorni dopo grazie alla Bbc. Il governo in risposta alla richiesta di notizie da parte delle autorità ecclesiastiche cattoliche eritree ha dovuto ammettere che il vescovo è in stato di fermo, senza spiegarne le ragioni. Il clima in Eritrea da tempo è pesantissimo. La scorsa settimana erano stati arrestati altri due preti cattolici: Abba Mihretab Stefanos, parroco della chiesa di san Michele, di Segheneiti, e il padre cappuccino Abba Abraham, di stanza a Tesseney, al confine con il Sudan. I missionari comboniani raccontano che i tre sarebbero detenuti nella prigione di Adi Abieto, un villaggio alla periferia di Asmara, tristemente nota per un massacro avvenuto all’inizio di novembre del 2005, quando le guardie aprirono il fuoco su migliaia di prigionieri, supposti renitenti al servizio nazionale obbligatorio,  rastrellati nelle strade della capitale nei giorni precedenti.

L’arresto del vescovo e dei due preti cattolici avviene in concomitanza con la ripresa della guerra civile e dell’intervento dell’esercito eritreo in Tigray, a fianco dell’esercito nazionale di Addis Abeba.

Lo scontento per la partecipazione al conflitto e per le politiche autoritarie e repressive del governo sta crecendo.Abune Fikremariam si era espresso pubblicamente contro il coinvolgimento nella guerra, tra l’altro ammonendo i fedeli a non avvantaggiarsi dei beni razziati dall’esercito alla popolazione del Tigray e messi in vendita nei mercati eritrei.

La Chiesa cattolica ha espresso ripetutamente e in modo chiaro le sue preoccupazioni per la situazione del paese e le sofferenze della sua popolazione attraverso una serie di lettere pastorali firmate dai quattro vescovi. In pratica è rimasta l’unica voce critica all’interno dell’Eritrea.Il governo ha risposto limitando progressivamente le sue attività sociali e caritative, nazionalizzando, tra l’altro, scuole e presidi sanitari. Gli ultimi, ad agosto, sono stati l’istituto agrario del fratelli di La Salle ad Hagaz – sulla strada che da Keren si addentra nella regione del Gash Barka – e l’istituto tecnico dei salesiani a Decameré, nella regione del Debub.

L’Eritrea è un paese in cui la libertà religiosa è fortemente limitata. Hanno la possibilità di svolgere attività pastorali solo quattro confessioni: la ortodossa copta (che è la più diffusa), la musulmana sunnita, la cattolica (composta dal 4% circa della popolazione), e la protestante luterana. Tutte le altre sono proibite, tanto che le carceri sono affollate da migliaia di detenuti per questioni religiose. 

La difficoltà estrema in cui si trova la Chiesa è confermata anche da padre Mussie Zerai, uno scalabrniano, attivista per i diritti umani. «È come camminare sulle uova, qualsiasi passo si faccia serve attenzione per non urtare le sensibilità e le modalità di agire. Non sappiamo nulla sulle motivazioni di questo arresto.  Non si capiscono le ragioni e nemmeno quelle del parroco della cattedrale della stessa diocesi, arrestato giorni prima».

Potrebbe bastare una critica velata in una omelia per finire nei guai. Nei mesi scorsi le autorità avevano confiscato scuole, cliniche e altre attività della chiesa.

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