«Ho perso la cognizione dopo un drink». Parla la vittima dello stupro in piscina a Perugia. E l'indagato resta in carcere

Il carcere perugino di Capanne
di Egle Priolo
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Mercoledì 24 Gennaio 2024, 07:15

PERUGIA - Racconta di aver perso «la cognizione» di quanto le accadeva «subito dopo aver smesso di ballare, di essere stata circondata dal gruppo del Maghrebi e aver sorbito un drink offertole da un soggetto». E chissà, è il dubbio, che in quel drink non possa esserci stata qualche sostanza che ha dato il via all’orrore. Ricordi terribili. Che affiorano dalle nebbie di una notte da incubo di una vittima di stupro.

Perché a oltre sei mesi di distanza, le fasi della violenza sessuale subita a metà luglio alla piscina comunale di Ponte San Giovanni è stata di nuovo costretta a riviverle. In questura a Perugia la ventenne di Fabriano, accompagnata dal suo avvocato Ruggero Benvenuto, è tornata lunedì pomeriggio per denunciare le velate ma preoccupanti minacce giunte via Instagram da tre ragazzi con il “consiglio” a ritirare la denuncia che ha portato all’arresto del 25enne Kharim Ez Zahar (nato a Norcia ma residente a Perugia), incastrato dalla coincidenza tra il dna trovato su una sigaretta e quello addosso alla ragazza. E in quest’occasione ha dovuto un’altra volta ricostruire quanto si ricorda di quella notte. Prima di riprendere completamente conoscenza in piscina, di rendersi conto di aver subito una violenza sessuale e di chiamare la polizia.
Perché inquirenti e investigatori hanno voluto di nuovo la sua versione dei fatti? Perché il 25enne, venerdì scorso nel corso dell’interrogatorio a Capanne, ha ammesso sì il rapporto sessuale ma definendolo «consensuale».

Rapporto poi, secondo lui, avvenuto non nella piscina ma prima, alla festa paesana di Ponte Pattoli, dove la ragazza era andata insieme a un'amica e in cui aveva incontrato il gruppo di ragazzi di Ponte San Giovanni conosciuti qualche tempo prima a un altro evento e con cui avevano appuntamento per quella sera. Una ricostruzione che la ragazza ha rigettato completamente.

LA DECISIONE
Una ricostruzione che evidentemente non ha convinto il gip Elisabetta Massini, dal momento che ieri ha disposto il rigetto della richiesta di revoca della misura cautelare della custodia in carcere avanzata dalla difesa del 25enne (con gli avvocati Vincenzo Bochicchio e Andrea Ulivucci) che dunque resta in carcere. «Faremo riesame», fanno però già sapere i legali del ragazzo. Che avevano chiesto la remissione in libertà del loro assistito, si legge nel provvedimento del giudice, «per carenza di gravi indizi». Una carenza motivata non solo dalla dichiarata consensualità del rapporto sessuale ma anche dal fatto che «non vi sono in atti elementi che collochino l’indagato all’interno della piscina nell’intervallo di tempo in cui si è verificata la violenza». Sostenendo anche che il 25enne all’ora indicata come quella della violenza (dunque dopo le due del mattino del 19 luglio) fosse a casa della fidanzata, dove ha raccontato di essere stato fino alle 3.30. Secondo il giudice, il fatto che - nonostante la vicinanza tra la casa della fidanzata e la piscina - i tabulati telefonici non rilevino la presenza del cellulare del ragazzo può essere spiegata anche con il fatto che il giovane abbia spento il telefono o «che abbia avuto con sé un’utenza non nota alle forze dell’ordine». Circostanza che il gip reputa possibile visto che «risultano dallo stesso indicate ben tre diverse utenze cellulari come in suo uso».
Ma è sul rapporto sessuale a Ponte Pattoli che il giudice Massini sembra nutrire più dubbi. Non solo per le parole diametralmente opposte della vittima, ma anche perché «nessuna delle persone» con cui il procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini e la squadra mobile hanno parlato dopo quella sera «ha riferito di aver visto» la giovane in compagnia del 25enne alla sagra. Lui stesso avrebbe raccontato di essere andato alla festa con un gruppo diverso e di aver poi passato la serata con le due amiche, come sostenuto dalla ventenne. «Appare circostanza anomala quella secondo la quale nessuno avrebbe visto la ragazza appartarsi o quantomeno parlare» con l'indagato. Come del resto ha ribadito lei, senza alcuna «volontà calunniatoria», considerando che «non ha mai indicato» il ragazzo come il suo aggressore. Incastrato invece dal dna.

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