Speravo de morì prima, Giorgio Colangeli e il ruolo di Enzo Totti:« Così sono diventato il padre del Capitano»

Colangeli nel ruolo di Enzo Totti
di Marina Cappa
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Martedì 16 Marzo 2021, 11:21 - Ultimo aggiornamento: 11:38

A 71 anni, i ruoli che ultimamente gli affidano hanno spesso un dato in comune: «Mariti molto laconici, messi spalle al muro da mogli torrrenziali», dice Giorgio Colangeli, attore che il cinema ha inziato a farlo tardi ma da allora non si è più fermato. L’ultimo (per ora) ruolo maschile “laconico” è Enzo Totti, morto lo scorso ottobre, nella produzione Sky Original Speravo de morì prima, sei episodi su Sky Atlantic dal 19 marzo, girati dal 20 luglio a ottobre.

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«Lo chiamavano “lo sceriffo”, in realtà era uno che ascoltava molto e parlava poco, travolto dall’esuberanza di Fiorella, la moglie, un po’ succube.

Qualcosa di questo personaggio risuona anche nel mio comportamento, questo essere più portato a osservare che a intervenire».

Lei lo ha conosciuto?

«No, però mi piacerebbe se adesso potessimo vedere insieme la fiction, dove si esplicitano quelle emozioni che lui magari nella vita non ha espresso. Come quando Francesco gioca l’ultima partita e noi genitori restiamo a casa a guardare i video di nostro figlio bambino che tira calci al pallone: nella storia io mi commuovo, magari Enzo si sarebbe potuto vedere in un momento che aveva tenuto nascosto».

Lei ha figli?

«Uno, che come me non è appassionato di calcio. Ma fa lo psicologo e magari potremmo rivedermi in televisione con lui».

Il calcio non le interessa?

«Sono romanista di tradizione familiare ma non lo seguo. Allo stadio sono stato due volte in tutto: da bambino con mio padre, senza che riuscissi a vedere niente, e più tardi con un macchinista tifosissimo a una partita che finì a botte».

Anche rispetto a Totti è agnostico?

«Lui va oltre l’interesse per il calcio. Durante le riprese l’ho visto solo quando abbiamo girato al ristorante La Villetta, è venuto con i figli e gli ho stretto la mano. Il regista, Luca Ribuoli, ha voluto sapere: “Ma cosa ti ha detto?”. Gli ho risposto con una battuta della fiction: “Niente, una famiglia di muti”».

In "Speravo de morì prima" sua moglie è Monica Guerritore.

«Incarna benissimo Fiorella, con quel suo tratto manageriale, forte. Come coppia secondo me funzionavano, io credo molto nelle dinamiche complementari».

Si riconosce nei mariti “succubi”?

«Nella vita a due ci si scamba spesso di ruolo. Io ho una ex moglie e una compagna: entrambe relazioni lunghe più di vent’anni. Sono un po’ un fondista».

Tornando a Totti: che “Capitano” è Pietro Castellitto?

«Ero perplesso: m ricordavo un ragazzino, mingherlino. Invece si è irrobustito, e con pochissimo trucco è entrato perfettamente nella parte. Per fortuna non si sono usati i prostetici che stravolgono i lineamenti: imitare è rischioso perché si rimane non si è mai all’altezza, mentre interpretare ti consente di andare oltre».

Da ragazzo lei giocava a calcio?

«Ero grassottello ed ero il primo della classe, gli altri erano bravi e io davo per scontato di non essere capace. Quindi facevo il portiere, ma nonostante stessi disciplinatamente fra i pali, mi infilzavano sempre. Il calcio è stato il simbolo di un mio Aventino esistenziale: tutto ciò che nella vita ho avuto paura di fare e cui ho rinunciato».

Si sente che frequenta la psicoterapia. In questi mesi le è stata particolarmente utile?

«In realtà non ho avuto particolari disagi, dopo il primo lockdown ho subito ripreso a lavorare e non ho più smesso: a metà giugno sono andato a fare un film in Grecia, in luglio è partita questa fiction, poi ho girato La promessa di Gian Luca Tavarelli dove sono un buon uomo un po’ marginale come Enzo Totti, quindi in PugliaBentornato papà. In tutto ciò, non ho mai saltato la terapia: il mio psicologo mi aveva proposto le sedute da remoto, ma non ho voluto. Vado da lui in bicicletta, e questo tragitto ormai fa parte della cura, non ci rinuncerei».

Che cosa pensa mentre pedala?

«Mi interrogo sull’opportunità di continuare ad andare in bicicletta, sulla mia caparbietà abitudinaria: io mi fisso che le cose rimangano sempre le stesse, forse perché con questo lavoro cambia talmente tutto in continuazione che serve compensare con riferimenti stabili».

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