Manfredonia, ha visto cosa è successo a Ndicka?
«Ho saputo, ma poi mi sono informato e mi hanno subito tranquillizzato».
Che idea si è fatto?
«E’ sempre stato cosciente, il cuore non si è fermato, questo è stato fondamentale. La paura è stata tanta, posso immaginare, ma penso che possa essere una situazione gestibile».
La sua a Bologna, in quel freddo dicembre del 1989, fu molto meno gestibile.
«Io ero quasi morto.
Si riferisce ai soccorsi?
«Nel mio caso furono decisivi, il defibrillatore può salvare una vita. Per quanto riguarda Ndicka non c’è stato bisogno, ma è stato fondamentale poter fare subito un elettocardiogramma allo stadio. Lì hanno capito che c’era un’anomalia e lo hanno portato in ospedale per proseguire accertamenti».
Non sono un po’ troppi i casi di malori del genere negli atleti?
«Sì, ma ci sono sempre stati. C’erano ai miei tempi, ci sono stati prima e li vediamo anche oggi. Può dipendere da tanti fattori, non possono essere accomunati da un solo problema. Dipende da giocatore a giocatore. C’è chi ha perso la vita in campo e chi, come Astori, nel sonno».
Eriksen non ha potuto più giocare in Italia.
«Qui ci sono regole più rigide, in Inghilterra meno e li ha potuto continuare la sua carriera».
Secondo lei, Ndicka rischia di non poter più giocare?
«Non lo so, non sono un medico e non ho parlato con gli specialisti che lo seguono, posso solo fare una valutazione figlia di esperienze: per quello che è accaduto, per essere uscito cosciente dal campo, io penso che possa riprendere la sua attività. O quantomeno diciamo che sono ottimista. Certo, la paura è stata tanta».