Tra gli altri, Domenico Naso sul Fatto Quotidiano lo ha definito un viaggio mostruoso nell’inferno cafonal. «Non sono d’accordo. Ho semplicemente raccontato la vita di cinque ragazzi ricchi e privilegiati. Tra l'altro, è stata un’impresa per nulla facile: per trovare i protagonisti ho contattato oltre 60 giovani, il 95% ha rifiutato di partecipare perché temeva che il documentario potesse danneggiare l’immagine della famiglia», commenta a caldo Alberto D’Onofrio al Messaggero.
Il documentario è stato prodotto dalla Rai, secondo lei è giusto che la televisione pubblica racconti acriticamente la società?
«Certo. Io non sono un giornalista, sono un autore regista che da ben 25 anni realizza documentari dal linguaggio provocatorio e controverso. Non voglio giudicare, né suggerire punti di vista. Al contrario, il mio scopo è lasciare libero il pubblico di farsi un giudizio personale».
È per questo che ha scelto un registro distaccato per la sua voce fuori campo?
«Esattamente. Credo che questa sia la chiave più efficace ed affascinante per indurre il pubblico alla riflessione. Lo ripeto: io non voglio sostenere nessuna tesi, né direzionare lo spettatore».
Dopo le critiche uscite sui giornali ha parlato con il direttore di RaiDue Ilaria Dallatana?
«Sì, mi ha fatto i complimenti per gli ascolti.
Nel mio lavoro quello che conta è il pubblico. E poi, me lo lasci dire, ho letto anche delle belle recensioni».
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