Montanari, il maestro dark: «Le Nozze di Figaro contro abusi e arroganza»

Stefano Montanari, direttore d'orchestra sul podio del Teatro dell'Opera per le Nozze di Figaro di Mozart
di Simona Antonucci
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Giovedì 1 Novembre 2018, 20:40
«Sentimenti, relazioni erotiche, rapporti di forza, analisi del potere. L’intreccio è perfetto. La musica è stupenda. Quando quel genio, birbante, e anche un po’ farabutto, si metteva a scrivere, d’accordo con Da Ponte, il risultato, eccolo: un’opera da una forza dirompente».

Stefano Montanari, romagnolo, 49 anni, look dark e piglio energico, è sul podio del Teatro dell’Opera di Roma per dirigere Le Nozze di Figaro, di Mozart, nel nuovo allestimento firmato da Graham Vick. E suonerà il fortepiano nei recitativi, probabilmente riponendo la bacchetta nella maglia, dietro la schiena, con un gesto che è diventato un cult.

«Le Nozze è capolavoro che permette a un direttore d’orchestra e a un regista di far arrivare al pubblico temi che riguardano tutti, molto da vicino». Lo spettacolo, in scena al Costanzi fino all’11 novembre prosegue il lavoro sulla trilogia Mozart-Da Ponte iniziato dal regista britannico Vick con
Così fan tutte e che si concluderà nella prossima stagione con il Don Giovanni.

In scena due cast per i ruoli principali: per il Conte di Almaviva, Andrey Zhilikhovsky e Alessandro Luongo; per la Contessa Federica Lombardi e Valentina Varriale; Elena Sancho Pereg e Benedetta Torre daranno vita a Susanna; Vito Priante con Simone Del Savio saranno Figaro, mentre Cherubino avrà le voci di Miriam Albano e Reut Ventorero, e Barbarina quelle di Daniela Cappiello e Rafaela Albuquerque.

«Ci si chiede sempre quale sia il filo conduttore della trilogia», continua, «l’amore, certo, ma sono eclatanti anche i risvolti sociali. Vick ha spinto molto sull’ossessione del potere e io sono d’accordo con lui».

Lei pensa che nella lirica i registi stiano rubando la scena ai direttori d’orchestra?
«Io porrei il problema in un altro modo. Ci sono alcuni registi che non conoscono la musica. E creano allestimenti senza tener conto dello spartito. La difficoltà, ma anche il fascino di mettere in scena uno spettacolo lirico, sta nei limiti che vengono imposti dalle note. Tempo fa mi è capitato che un regista volesse cambiare un momento musicale. Gli ho chiesto perché. E mi ha risposto: perché no?».

A proposito di potere, sono cambiate le gerarchie?
«I rapporti sono diverse. Oggi, a regnare dovrebbe essere la collaborazione. Quella che c’è stata tra Vick e me. Un regista ha l’obbligo di conoscere l’opera e il direttore deve lavorare su cantanti e orchestra per far sì che il tutto abbia un suo fine. Altrimenti, lo spettacolo non sarà mai credibile e risulterà sempre appiccicato».

Lei è un profondo conoscitore, e amante, della musica rock: un bagaglio utile nel mondo della lirica?
«La musica colta nasce dalla musica popolare. Il violino, che ho suonato e suono, serviva nelle feste. Si possono ricucire così tante suggestioni. Ma la cosa importante è che i compositori di un tempo scrivevano pensando al loro pubblico esattamente come fanno i musicisti di oggi».

Il suo look, più simile a una rockstar, è un messaggio al pubblico dei teatri d’opera?
«Ho cominciato a togliere giacche e papillon perché morivo di caldo.
Stavo scomodo. Ho un orecchino, non sono coperto di piercing, indosso gli stivali e i miei anelli. Mi hanno fatto questa domanda tante di quelle volte, posso rispondere che in Italia l’abito fa il monaco. All’estero non è così». 
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