«Anche le capre restano ipnotizzate dalla musica di Aureliano in Palmira. Sì, un vero e proprio gregge di caprette che lascio libere sul palcoscenico, per ricreare una sorta di Arcadia, un rifugio dalla vita bellica del principe. Da quando sono cominciate le prove ascoltano l’opera di Rossini tutti i giorni per prendere familiarità con il suono. E devo dire che sembrano beate». Mario Martone presenta uno dei tre spettacoli (gli altri due sono Eduardo e Cristina e Adelaide di Borgogna) in programma per la 44esima edizione del Rossini Opera Festival che si svolgerà a Pesaro dall’11 al 23 agosto. Titoli poco frequentati del repertorio rossiniano, proposti insieme con due Cantate di rara esecuzione, gli appuntamenti del Festival Giovane, i concerti lirico-sinfonici e belcantistici e la Petite messe solennelle finale.
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Non è un’opera particolarmente nota, quella firmata dal regista napoletano.
Questo è il suo secondo Aureliano. Che cosa l’affascina?
«È particolare e difficile. Come molti dei titoli che al Rof tirano fuori dal sorprendente giacimento delle opere rossiniane meno consuete. Qui ho fatto anche Matilde di Shabran, Torvaldo e Dorliska e appunto Aureliano in Palmira che riprendo dopo quasi dieci anni. Nel frattempo ho firmato anche un Barbiere di Siviglia, in versione cinematografica per l’Opera di Roma. Per un regista si tratta di macchine drammaturgiche non facili. La storia scorre attraverso i recitativi, mentre i concertati accompagnano il pensiero dei protagonisti. Ed è per questo motivo che ho cercato di andare in sottrazione».
Capre... e poi?
«L’allestimento è leggerissimo. Mi sono ispirato un po’ al documentario Saharawi che ho girato nel 1996. In scena ci sono telette che ricordano le tende del deserto. Pasquale Mari che ha fatto le luci ha ricreato un’atmosfera di mistero. Niente colonne né templi. Immaginiamo che l’imperatore arrivi in un labirinto».
Amore e potere, oriente e Occidente: che cosa racconta oggi questa storia?
«Abbiamo una regina africana, Zenobia, e un imperatore romano. La questione storica si mescola con la questione amorosa. Arsace tradisce Roma per amore e Aureliano si innamora di Zenobia. Anche se sono personaggi diversi, difficile non pensare ad Antonio e Cleopatra. A Shakespeare. Ed è al suo teatro che mi sono ispirato».
E Arsace che ama Zenobia è interpretato da una donna: ne è stato influenzato?
«Lo scontro tra Zenobia e Aureliano è anche uno scontro uomo donna. E l’amore passionale di fatto si consuma tra due donne. Ho cercato di trovare l’elemento perturbante, senza pensare al quadro storico».
Che cosa ne pensa delle polemiche che hanno accompagnato la Bohème ambientata nel ‘68 al Festival Puccini?
«Trovo che sia un segno di vitalità che delle persone appassionate si scontrino su questioni artistiche. Quando faccio qualcosa che tocca la tradizione sono pronto a prendere i fischi, come è successo alla prima di Rigoletto. Che poi, invece, è stato un successo. La dialettica a teatro va coltivata. Ma l’immagine di un direttore che dirige bendato (il maestro Veronesi, ndr) non significa nulla. Allora cosa dovrebbe fare un regista che non gradisce l’interpretazione musicale? Tapparsi le orecchie?».
Lo scontro tra innovazione e tradizione, quindi non la spaventa?
«Ho fiducia nell’arte e negli artisti e nella loro capacità di tenere la forza dell’immaginazione. È l’immaginazione che deve piegare la realtà. E la lirica è un campo vivo».