Partiti a pezzi, ascese e cadute: Luciano Fontana racconta l'Italia dei leader impossibili

Luciano Fontana
di Mario Ajello
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Giovedì 15 Febbraio 2018, 08:58 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 14:30
O si va verso la politica della responsabilità e della credibilità oppure l'alternativa è nella vignetta di Giannelli: tutti gli inquilini del Palazzo a bordo di una carrozza, trainata da due cavalli, che sta per superare l'orlo del burrone. E' questa l'immagine di copertina del libro di Luciano Fontana, direttore del Corriere della sera, che esce per l'editore Longanesi. Si tratta di un saggio-racconto non schierato. O meglio: non schierato con alcune delle forze in campo ma fortemente partigiano della necessità di costruire una classe all'altezza di un Paese che ha bisogno di ritrovarsi e di crescere. Ma come si fa, in assenza di leader veri?

L'INTRECCIO
Intrecciando storie, protagonisti, retroscena, distillando bozzetti e giudizi, Fontana delinea Un Paese senza leader, questo il titolo del volume, e va in maniera ragionata e non apocalittica al nocciolo della questione. «Diciamocelo con franchezza», scrive: «Anche se all'orizzonte spuntasse un leader, e al momento non se ne vedono, sarebbe subito neutralizzato da un sistema politico e istituzionale che sembra confezionato su misura per impedire l'ascesa di una nuova personalità e l'affermazione di una nuova prospettiva». Il direttore del Corriere si affida a Lenin e a una sua celebre frase: «Un passo avanti e due indietro». E' ciò che è accaduto alla politica italiana in questi anni. La fine del maggioritario e la caduta dell'illusione di un Paese che potesse avere forti leadership investite direttamente (o quasi) dagli elettori hanno prodotto, alla vigilia delle elezioni del 4 marzo prossimo, «un sistema frantumato, diviso, affollato di partiti e partitini che invocano le virtù del proporzionale». C'è una parte d'Italia, e il Corriere è tra queste, che si sarebbe aspettato ben altro. «Volevamo essere europei - incalza Fontana - e ci ritroviamo sempre più italiani, in quel modo di essere italiani che non ci piace».

Fontana ha uno stile secco e insieme rilassato. Non si compiace del marasma che racconta. Anzi, affronta il tema mantenendo quella distanza dalla politica politicante e urlante che tutti i cronisti - e lui lo è stato - dovrebbero rispettare. Evitando il coinvolgimento emotivo. Berlusconi? «Oggi è visionario e convinto delle sue idee al punto da considerare vero quello che forse non lo è». E il centrodestra «si ritrova con buone chance di essere il perno della nuova legislatura ma senza un progetto comune e un leader pronto a condurlo nel futuro. Anzi, con il rimpianto di non avere ancora un Berlusconi con venticinque anni di meno». Un'istantanea nitida. Come questa. «La spinta propulsiva del renzismo sembra finita e tanti, con conversioni rapidissime, sono saltati sul carro di Gentiloni e del suo ministro Minniti, politici a cui viene riconosciuto il merito di aver ottenuto risultati positivi sul fronte della crescita economica e dell'immigrazione». E Matteo? «Al tavolo da poker sarebbe il giocatore che rilancia sempre, anche se si tratta solo di un bluff». E ancora: Renzi ha capito di aver perduto «il tocco magico» e lui stesso dice che «votare contro di me è diventato smart, figo».

Ora tocca a Di Maio. «La legge elettorale - si legge in queste pagine - costringe il suo movimento alle aperture, pena l'irrilevanza. Siamo a una mutazione genetica, almeno nelle intenzioni dell'aspirante leader, di linguaggio, programma e prospettiva. Chiudendo nel sottoscala del Movimento la rivoluzione e le scie chimiche». Ammesso però che non torni ad echeggiare il richiamo della foresta. Quello che fa dire a Grillo: «Alleanze con altri partiti? E' come dire che un giorno il panda può mangiare carne cruda. Noi mangiamo solo cuore di bambù. L'unica forza politica siamo noi». L'altra incognita riguarda Salvini. Saprà mai essere uomo di governo? A Fontana, il leader leghista ha assicurato di sì: «Io cavalco la rabbia per arrivare a soluzioni». E pur di governare è pronto ai «compromessi possibili» al netto dell'incompatibilità assoluta con Renzi, chiosa l'autore aggiungendo: «Anche se la politica italiana ci ha abituati a giravolte impensabili».

IL GOVERNISSIMO
La conclusione di questa storia amara resta apertissima. E consiste nella pervicacia liberale della ricerca di «leader che dicano la verità, non presentino libri dei sogni, ci indichino poche cose realizzabili e come attuarle». Questa l'aspirazione, e quest'altra la realtà: «Coalizioni costruite solo per vincere, senza programmi comuni e senza leadership riconosciute, che sono preoccupanti come e forse di più dei governissimi che devono mediare in continuazione tra forze diverse».
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