D’altronde il libro parte con un molto eloquente periodo ipotetico: “Se questa storia cominciasse dall’alto vedreste…” Si potrebbe dire che tutta la poetica di Pascale è già contenuta in questa prima frase. A Pascale non importa molto della storia che sta raccontando, del suo andamento narrativo, della sua trama. Nonostante la scrittura precisa e svelta, l’interesse de “Le aggravanti sentimentali” sta veramente tutto fuori dal libro, nelle problematiche meta-letterarie che consapevolmente o inconsapevolmente pone. Questo “no” al modo romanzesco- Pascale si comporta come un Bartleby delle lettere nostrane- è curioso proprio perché viene pronunciato da un autore considerato letterario (e per me lo è, sia chiaro), e non da uno di quegli scrittori che per comodità potremmo definire bestselleristi (i quali attaccano la letteratura frontalmente solo per il fatto di scrivere come scrivono, cioè male).
Il romanzo è morto, dunque? Nel novecento non c’è stato nessuno che non l’abbia detto. L’hanno detto tutte le avanguardie e le neo-avanguardie, l’hanno detto i fautori dello stream of consciousness e del Nouveau Roman, i frequentatori dell’assurdo e persino i minimalisti. Pascale però intona un requiem che talvolta si avvale di idee superficiali come quella, un po’ da cattiva scuola di scrittura, che la storia coincida tutta con la trama. La stessa ironia di cui è permeato il libro è solo una forma di velato menefreghismo che ammanta tutti: autore, narratore, personaggi (cinismo e nichilismo, che pure qua e là affiorano, sarebbero categorie decisamente troppo impegnative da tirare in ballo). Pascale quindi più che un antiromanzo ci consegna un romanzo impotente. E sembrerebbe farlo più per svogliatezza che per darsi a una qualche dimostrazione letteraria, forzare le forme delle tradizione, aprire nuove strade teoriche. Lo fa un po’ così (buttato su una panchina, direbbe lui), senza mai pensare di mettersi al servizio di un racconto che cerchi di andare in profondità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA