Quanto è difficile abitare la solitudine. Un dialogo con il Premio Pulitzer Jhumpa Lahiri sul nuovo romanzo «Dove mi trovo»

Quanto è difficile abitare la solitudine. Un dialogo con il Premio Pulitzer Jhumpa Lahiri sul nuovo romanzo «Dove mi trovo»
di Andrea Velardi
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Mercoledì 26 Settembre 2018, 12:31 - Ultimo aggiornamento: 5 Ottobre, 23:18
In occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, «Dove mi trovo», edito da Guanda, che si presenta oggi alle 18 a Roma presso la Casa delle Letterature, abbiamo incontrato la scrittrice  Jhumpa Lahiri. Dopo l’infanzia a Calcutta, dove parlava bengalese, Lahiri si è trasferita con la famiglia in America e, dopo la familiarità con una seconda lingua in cui scrive vincendo il Premio Pulitzer per la sua prima raccolta Interpreter of Maladies, è emerso l’innamoramento improvviso per l’italiano di cui ha parlato diffusamente nel primo libro scritto nella nostra lingua: «In altre parole».

Una «scelta insolita, sorprendente, repentina» come ce la definisce Lahiri, un’attrazione per «una lingua privata», la «lingua differente che fosse un luogo di affetto e di riflessione» di cui parlava Antonio Tabucchi con cui inizia la meditazione di quel libro. La lingua italiana è come l’esilio in una cullante bolla simbolica, in un antro protettivo in cui la vita arriva nella quiete di una penombra, coi suoi raggi sbiaditi e attenuati che però non perdono la loro direzione inesorabile e la loro lucida significanza.

Una lingua corteggiata, ma mai pienamente posseduta, dove Jhumpa si sente imperfetta, limitata, ma al contempo libera in uno spazio simbolico ed evocativo transizionale. ​Dell’India le rimane il nome Jhumpa, evocativo del suono della pioggia. Alla nostra domanda su questa nuova appartenenza Lahiri ci rimanda al capitolo «Il triangolo» di «In altre parole». Il lato dominante è l’inglese, ma il bengalese e l’italiano, pur essendo deboli, sono quelli del rifugio oblioso e carezzevole, di un esilio acquattato e remissivo, di un riparo soffice e temperato per chi non si ritrova a ad appartenere a nessuna madre-lingua o madre-patria, all’interno in una strategia elusiva e compositiva del dissidio tra radicamento ed estraneità.

Italo Svevo ispira “Dove mi trovo”, edito da Guanda, con una frase contenuta in «Saggi e pagine sparse»:  «Ad ogni mutamento di posto io provo una grande enorme tristezza. Non maggiore quando lascio un luogo cui si connettono dei ricordi o dei dolori e piaceri. E’ il mutamento stesso che m’agita come il liquido in un vaso che scosso s’intorbida».  

La protagonista ha una natura ambivalente, solipsistica ed esuberante. Scrive: « Fare la solitaria e` diventato il mio mestiere. Si tratta di una disciplina, cerco di perfezionarla». Questa donna pratica una disciplina della solitudine che rischia di chiuderla in una curiosità ed empatia per gli altri tutta ripiegata in una prospettiva egocentrica, in un voyerismo nobile, elegante, metropolitano che in alcuni momenti arranca stanco e ripetitivo, anche se la sua ciclicità è scaramantica, protettiva , come accade con il passaggio davanti alla lapide di un giovane morto in un incidente. Il rischio è che questa empatia sia tutta chiusa in un inconsapevole egocentrismo che si illude di aprirsi agli altri. Lei  è affascinata dalla natura e dalla gente della città che la ospita, è incantata e pensosa davanti al fluire delle comparse, il suo sguardo indagatore sovrasta il divenire semplice della vita, che per qualcuno potrebbe apparire fin troppo piano e scontato, ma è qualcosa dentro cui l’autrice e la protagonista estraggono una evidenza inesorabile e disarmante, oltre cui non c’è riflessione ma la nudità della vita, come può fare una saggezza antica e mistica con le cose semplici e gli elementi della natura, non solo erodendo la scorza ottusa dell’ovvietà, ma svelando quanto possa essere abbagliante la sola superficie delle azioni e degli eventi. Da un parte la protagonista adora vagare, rifuggire, evadere e dall’altra cerca anche il calore empatico, umano, una affettuosità superficiale che riscalda comunque come una brezza marina. «Questi incontri spezzano piacevolmente le nostre solite peregrinazioni. Ci godiamo un affetto casto, di sfuggita».

Jhumpa Lahiri approfondisce questa riflessione e fornisce un’altra angolazione: «Io non penso che la mia protagonista sia una donna totalmente egocentrata, penso che lei sta cercando di legarsi al mondo. In questo slancio lei certamente proietta spesso, perché – come diceva lei- è una figura molto sola. Ogni tanto lei si inserisce in maniera poco discreta e poi però se ne rende conto . Segue una coppia che sta litigando, il papà e la figlia che non comunicano, si sente quasi invisibile, mentre in realtà è un poco invadente, ma alla fine mi sembra una figura bisognosa di affetto e attenzione, che vorrebbe creare un legame anche con tutte le ombre che la circondano, con le persone che non ci sono più, le figure che le sfuggono, come l’ uomo sposato di cui è presa, ma con cui alla fine non scatta mai nulla. Anche in relazione al suo lavoro, ai suoi libri io non la vedo come una che rischia l’egocentrismo ma vedo una certa fragilità. Ogni tanto è una persona scostante, forse perché le mancano le prospettive degli altri».

Quelle che cerca di riguadagnare con il suo continuo osservare ed elucubrare, anche se alla fine, a sovrastare tutto, è il tema dell’incomunicabilità, intimamente legato alla solitudine, che paradossalmente riguarda anche chi è più familiare, più prossimo a lei . L’uomo di cui è innamorata, il «LUI» del romanzo, è «un’ombra che la conforta e la turba».  Dei colleghi  dice «Siamo costretti a essere vicini, sempre raggiungibili, eppure mi sento alla periferia di tutto».  I turisti appaiono per un breve lasso di tempo nella sua vita, un padre cerca di convincere parlare  la figlia che guarda di continuo il cellulare e si arrende guardando il cellulare pure lui. La madre le ha dato tanto amore ma «malgrado il suo attaccamento .. non le interessa il mio punto di vista, ed è questo scarto che mi insegna la vera solitudine». È una continua guerra contro l’incomunicabilità questo guardare ossessivo della protagonista. «L’incomunicabilità è un tema centrale nei miei libri, soprattutto quelli in inglese - ci conferma l’autrice. Sto indagando su questo tema anche nella nuova lingua, non mi stupisce che lei abbia colto in questo libro il tema della impossibilità della comunicazione. L’oggetto della mia storia sono le distanze incolmabili non solo tra due luoghi ma anche tra le persone, le distanze tra le lingue, tra le culture. Affronto la questione descrivendo questa figura quasi senza identità che subisce questa chiusura che per certi versi è una condizione universale, esistenziale. Senza differenze  tra Italia, India, Stati Uniti. Per rispondere ho tolto tutti gli strati che avevo prima, vorrei capire il senso profondo di questa condizione».

Nella vita della protagonista emerge un disagio, un disadattamento peculiare a lavoro dove si sente «esposta, circondata». I colleghi la ignorano, forse la trovano ispida,  e lei ignora loro («Sono qui per lo stipendio, non ci metto il cuore»). Lei è molto suscettibile ai contrasti e ai cambiamenti minimi,  corregge i compiti degli studenti, decide quale libro far leggere loro, ma la «innervosiscono i loro movimenti, le loro chiacchiere» e lei cerca «invano di riscaldare lo spazio». Pure Jhumpa  pensa che questo stato così precario e sussultorio sia decisivo:  «Lei sente il disagio dovunque vada, a cena con gli amici, a lavoro, è una persona irrequieta, ha dei momenti di tranquillità ma di rado. C’è un rifiuto di relazionarsi con il mondo, con i colleghi. Non ha trovato una sua dimensione, non solo fisica e spaziale legata al quartiere, ma esistenziale, forse è un vuoto che dobbiamo affrontare, accettare, su cui possiamo solo riflettere senza risolverlo. La protagonista riflette fin troppo, forse è troppo sensibile si infastidisce spesso, ma non potrebbe fare altrimenti rispetto all’evidenza. Lei esita. Da bambina aveva paura ad attraversare il vuoto fra i due tronchi. Questa è una metafora di come un nulla impedisce e inibisce questa donna in tutti i sensi».
 
Insomma le ombre sono vere, non sono illusioni. E’ un vuoto legato anche alla sensibilità e al dolore profondo Un disagio che sta altrove. La protagonista parla dei suoi dolori riferendoli alla primavera: «Ogni solco amaro della mia vita e` legato alla primavera. Ogni colpo duro. Ecco perché mi affliggono il verde acuto degli alberi, le prime pesche al mercato, le gonne svasate e leggere che mettono le donne del mio quartiere. Queste cose rimandano solo a perdite, tradimenti, delusioni». In un passaggio fulmineo Lahiri racconta la morte improvvisa del padre a causa di una infezione.

La donna si immedesima in una bambina di 16 anni che va in bici in piazza  e che le ricorda che a quell’età lei leggeva, studiava, ma non conosceva l’amore. «Sono molti i dolori di questa donna: la felicità del padre quando era adolescente e la sua scomparsa, il rapporto conflittuale con la madre, c’è una solitudine fin dall’inizio e poi c’è la sua esitazione, il confine doloroso tra lei e gli altri. Nell’ultimo capitolo lei sta per andare via e si lascia alle spalle la vita confortante, però perfino sul treno davanti a quel gruppo, a quel chiasso che rappresenta la vita, lei non riesce a partecipare come avrebbe voluto, lei tenta di partecipare alla vita, ha dei ritmi quotidiani legati a dei segni come la lapide del giovane morto a quarantaquattro anni che supera tutti i giorni. Anche se sono tappe inquietanti, lei segue questo percorso, la sua solitudine è piena di percorsi e di giri». E’ proprio così, per la protagonista di «Dove mi trovo» il fluire della vita è un oggetto di riflessione, di sguardo, ma rimane sempre qualcosa a cui lei non riesce a partecipare. Perché a lei «manca l’ombra favorevole di qualcuno».
 
 
 
 
 
 
 
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