Yasmina Reza: «Porto a Capri i miei personaggi “inadeguati” e vi racconto il mio amore per l'Italia»

Yasmina Reza: «Porto a Capri i miei personaggi “inadeguati” e vi racconto il mio amore per l'Italia»
di Marina Valensise
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Venerdì 1 Ottobre 2021, 16:58

Yasmina Reza, considerata la più grande drammaturga vivente, autrice di bestseller spietati e simbolici, come “Il Dio del massacro” pubblicato in Italia da Adelphi e trasformato in un film pluripremiato da Roman Polanski, “Carnage”, si considera legata all'Italia da un filo rosso e speciale. Studia l'italiano, visita assiduamente città d'arte come Venezia dove respira la bellezza eterna di opere immortali, ama lo spirito genuino che attraversa le radici della nostra cultura. Alla vigilia del premio Malaparte che riceverà domenica 3 ottobre a Capri (alle ore 11 alla Certosa di San Giacomo) concede al Messaggero una delle rarissime interviste che solitamente distilla con il contagocce. Francese, di origine iraniana è forse una delle autrici di teatro più rappresentate nel mondo. Da Londra a Broadway, da Berlino a Madrid, i suoi testi vengono messi in scena da più di trent’anni, spesso con lei stessa come interprete o regista.

Lei è conosciuta in tutto il mondo, eppure mostra una predilezione per il nostro Paese. Cosa trova di particolare in Italia che altrove le manca?

«Potrei risponderle coi soliti luoghi comuni, la lingua, la bellezza, il cibo….che fra l’altro sono tutti veri. Ma perché siamo sensibili a una certa musica e non a un’altra? Ci sono cose che ci parlano intimamente, senza che riusciamo a capire da dove vengano. Io non ho con l’Italia un legame assodato, voglio dire familiare. Eppure ne sono attratta in modo irresistibile».

Un legame tanto speciale?

«Forse non c’è nulla di razionale in questo. La prima volta che sono venuta a Roma, per esempio, ho sentito fisicamente tutte le sedimentazioni che formavano la città, ho sentito la sua storia, il suo sole, il suo posto nel mondo. Sono felice che i miei libri abbiano trovato un pubblico in Italia e le critiche italiane per me contano più delle altre. D’altra parte, voi in Italia avete ancora degli uomini di cultura, il che è molto confortante».

Lei nelle sue opere drammaturgiche coltiva uno stile levigato, dove dà spazio a battute implacabili e al gioco paradossale di una impossibile normalità dei personaggi. Quasi una abilità rabdomantica a captare i tic, le debolezze e le ossessioni del mondo contemporaneo. Artisti mitomani e autoreferenziali, coppie nevrotiche e disfunzionali, famiglie asfittiche e però cementate da un passato che non passa, come nell’ultimo romanzo “Serge”, dove osa l’inosabile, raccontando in chiave di farsa tragica il dissidio di una famiglia ebraica durante un impossibile viaggio della memoria a Auschwitz. Non è una satira sulla deriva narcisistica di artisti e scrittori?

«Personalmente, non sono favorevole al termine satira, in quanto presuppone uno sbalzo, una posizione di superiorità, in cui non mi riconosco.

Parto per Capri con gioia e leggerezza. I riconoscimenti sono gradevoli, perché la nostra incertezza è sempre immensa. Detto ciò, non vi è alcuna confusione possibile tra il riconoscimento legato ai premi o al successo e l’effettiva riuscita del lavoro. La soddisfazione che si può trarre dal proprio lavoro è qualcosa di intimo i cui criteri non sempre coincidono con quelli esteriori».

E’ vero che il teatro contemporaneo a volte viene considerato solo come una forma di intrattenimento. Ma i suoi lavori teatrali sembrano offrirne una smentita. Qual è allora la sua ambizione in termini di catarsi?

«Intrattenimento? Non conosco molto bene cosa succede alla vita teatrale in Italia. Forse questa osservazione si applica specificatamente qui da voi. Allargando il campo io non credo che il teatro contemporaneo sia considerato una forma di intrattenimento. Anzi direi il contrario e cioè che la maggior parte degli autori seri in tutto il mondo sono ben lontani da questa formula».

Eppure nei suoi lavori rivela uno sguardo spietato sui vizi e le debolezze umane. Qual è il segreto di questa sua attenzione straordinaria?

«Il personaggio per me è essenziale. Vedo la scrittura come una sorta di sperimentazione dell’uomo nell’epoca in cui vive. E’ una ricerca permanente di tutte le sottigliezze e delle contraddizioni. Non c’è mai niente di teorico nel mio modo di abbordare un personaggio. Non è mai predefinito su criteri troppo rigidi. Va avanti da solo insieme con me, con le sue fragilità e le sue inadeguatezze. Mi piace seguire le tracce di quello che non si vede a occhio nudo. Cerco di capire. Questi elementi rappresentano le stesse cose che io stessa ho costatato o provato direttamente o attraverso gli altri. Anche se in fondo restano enigmatiche. La mia è un’indagine senza fine. Da qui la reticenza a esprimere in pubblico la minima certezza».

Cosa pensa della crisi della coscienza occidentale e di quella corrente che porta a cancellare l’eredità del passato che non rispecchia i nostri stessi valori?

«La cosiddetta cancel culture? Forse nulla di particolarmente pertinente. Non me ne voglio occupare. Francamente non sono un sociologo».

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