Juan M. Guevara: «Mio fratello il Che non va santificato»

Juan M. Guevara: «Mio fratello il Che non va santificato»
di Paola Del Vecchio
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Martedì 19 Settembre 2017, 08:18 - Ultimo aggiornamento: 23 Settembre, 16:05
«Ernesto Guevara è mio fratello di sangue e il Che il mio compagno di idee. Ed era un tipo cocciuto. In casa non avevamo la sensazione che si sarebbe convertito nel mito che è poi diventato. Era nemico di tutto quello che significava il culto della personalità, nemico delle beatificazioni. E non gli sarebbe piaciuto diventare santo». A smontare l'icona di Che Guavara, per recuperare l'uomo, è Juan Martín Guevara, 73 anni, il minore dei quattro fratelli di Ernesto Guevara che ha aspettato 50 anni dalla fucilazione del Comandante della rivoluzione cubana (avvenuta il 9 ottobre del 1967) per rompere il silenzio. E mostrare il lato più intimo di Ernestito nel libro Il Che mio fratello, scritto con la giornalista francese Amelie Vicent, in uscita domani per Giunti. Dalle memorie personali, emerge il ritratto del bambino che divora romanzi di Salgari e Giulio Verne e gioca a rugby, dello svogliato studente di medicina che si laurea a tempo di record, dell'instancabile viaggiatore ed esploratore delle vene aperte dell'America latina, che affida nelle lettere ai suoi l'indignazione e l'amarezza per le ingiustizie.

Juan Martín, sono dovuti passare 47 anni perché si decidesse a visitare il luogo dove suo fratello fu assassinato, perché?
«Avevo 23 anni quando morì ed era un pellegrinaggio che è stato sempre dentro di me, ma molto difficile. Poi, per anni ha pesato la repressione politica, in Bolivia e in Argentina, e la mia situazione personale, detenuto per 9 anni durante la dittatura. Nel 2014, invitato dall'ambasciatore argentino, Ariel Basteiro, ho affrontato il mio primo viaggio in Bolivia. Quell'anno arrivai a La Higuera, dove il corpo del Che fu esposto in pubblico; ma non andai alla Quebrada del Yuro, dove era stato ferito e catturato. Lo feci l'anno dopo, con una figlia e ad altri compagni».

Cosa trovò?
«Un misto di fervore religioso per Sant'Ernesto de la Higuera e un merchandising di reliquie di ogni tipo, magliette, bandiere, accendini. Giù, alla Quebrada, emozioni dolorose, un'enorme pena. E tante domande, tutte molto dure: com'era arrivato in quella gola profonda? Era stata un'imboscata? Soprattutto, perché io non ero stato là con lui? Avrei dovuto restare con lui a Cuba nel febbraio del 1959, ignorare il divieto di mio padre».

Il Che è ormai solo un bel viso sui gadget?
«In questo mondo dove il mercato impera sull'umano, ci sarà sempre chi sfrutterà la sua immagine per fare soldi. La questione di fondo è che nessun commerciante perderebbe tempo con un prodotto che non si vende. E il Che vende».

Era il maggiore di 5 figli di Ernesto Guevara Lynch e di Celia de la Serna, che appartenevano alla classe elevata argentina, sebbene decaduta...
«Questa storia della famiglia della classe alta, addirittura appartenente all'oligarchia e all'aristocrazia, non è affatto certa. Il nostro nucleo familiare non ne ha mai fatto parte, perché non ha mai posseduto aziende, terreni o denaro. La nostra è sempre stata una famiglia anticonvenzionale, che ha rotto gli schemi. Abbiamo avuto solo un'auto, che io, il più piccolo, ho visto solo in foto».

Sua madre, che come lei, è stata nelle carceri argentine, era una donna molto progressista: che influenza ha avuto sul Che e su di lei?
«Fu detenuta al ritorno da un viaggio da Cuba, durante la presidenza di José Maria Guido (1062-1963, ndr.), che dopo la destituzione di Frondizi, assunse il potere alla Casa Rosata. Io fui arrestato con Perón presidente e poi con Isabel Martínez de Perón, quando si stava preparando il golpe militare. Ernesto, come me, era una sintesi di entrambi i genitori. Di mio padre: del suo continuo inseguire nuovi progetti, spesso inconcludenti. Di mia madre: della perseveranza, dell'etica, del suo amore per la cultura. Lei ha inculcato a Ernestito il piacere della lettura, gli ha insegnato il francese quando, da piccolo, non poteva andare a scuola a causa dell'asma. Entrambi ci hanno spinti a essere noi stessi».

Ci può tracciare un profilo di suo fratello maggiore?
«Si distingueva per la sua caparbietà. Quando si metteva una cosa in testa, doveva realizzarla a tutti i costi. Ad esempio, quando decisero con Alberto Granado di viaggiare in moto per l'America Latina, con l'obiettivo di arrivare negli Stati Uniti. La moto si ruppe in Cile, e loro proseguirono su una zattera, in camion, con l'autostop fino al Venezuela, dove Granado decise di fermarsi. Ernesto riuscì a salire su un aereo cargo, senza pagare il passaggio, e ad arrivare a Miami, da dove ci mandò una lettera per dirci che era giunto a destinazione. Oppure quando, navigando in zattera sul Rio delle Amazzoni, si ripromise di guadarlo a nuoto. Nonostante Granado l'avesse avvertito dei pirañas e i coccodrilli, lui lo attraversò lo stesso. O anche in Messico, quando decisero di salire sul Popocateplc a 5.400 metri: Ernesto, malgrado l'asma, arrivò su e piantò una bandiera argentina sulla cima del vulcano. Ecco, questo era il suo modo di essere!»

Come è diventato il Che che conosciamo?
«Non certo da un giorno all'altro. Se non avesse incontrato i cubani di Fidel, non sarebbe stato della partita. Tuttavia, se non avesse previamente accumulato tutta l'esperienza di conoscenza dei paesi dell'America Latina, e dei loro bisogni, non avrebbe accettato subito la proposta di unirsi al movimento del 26 luglio. E, dunque, nemmeno sarebbe diventato il Che».

Quando il Che entrò all'Avana, nel gennaio 1959, alla testa della colonna Ciro Redondo dell'esercito ribelle, lei aveva 15 anni. Che ricordi ha di quei giorni?
«Aver salutato Ernestito, che si era fatto riformare al servizio militare argentino per l'asma, e ritrovarmi davanti il Comandante fu una grossa sorpresa, per quanto le notizie che circolavano su di lui mi avessero preparato. Abbiamo sempre cercato di conservare momenti nostri, per raccontarci e scambiare battute tra di noi. Ricordo quando arrivammo al lussuoso Hotel Hilton, l'attuale Habana Libre, dove al piano terra si era installato il quartier generale dell'esercito ribelle, uomini con le uniformi logore e le armi, stravaccati sui divani. Mi colpirono, fra i turisti stupefatti che vagavano nell'atrio, alcune stelle internazionali del cinema, come Errol Flynn!»

Lei è stato un decennio in carcere per la sua militanza nel Partido Revolucionario de los Trabajadores. Pesò il fatto di essere fratello del Che?
«Con i compagni, riuscimmo a evitare l'intento dei militari argentini di isolarci, di spezzarci, grazie alle nostre convinzioni. Un giorno entrò nella mia cella una guardia penitenziaria, un esperto anti-insurrezionalista. Dopo l'interrogatorio, quando io pensavo, ecco, ora mi dice domani ti mandiamo a morte, si rivolse verso di me per dire: che grande tipo tuo fratello, peccato che sia andato a sinistra».