Seaspiracy: il documentario shock contro la pesca (ma con qualche inesattezza di troppo)

Seaspiracy: il documentario shock contro la pesca (ma con qualche inesattezza di troppo)
di Nicolas Lozito
5 Minuti di Lettura
Giovedì 8 Aprile 2021, 16:56 - Ultimo aggiornamento: 9 Aprile, 11:09

È l'ultimo documentario arrivato su Netflix, ma è già tra i più visti sulla piattaforma di streaming: in questi giorni è entrato nella Top 10 di almeno 32 paesi, Italia compresa. È soprattutto uno dei documentari i più dibattuti online, con un'altalena di opposte opinioni: ad alcuni ha causato uno shock tale da far ripensare le proprie abitudini alimentari, ad altri - organizzazioni ambientaliste incluse - ha aperto il campo alle critiche. «Il film mette in luce aspetti importanti? Sì. Lo fa con un metodo ingannevole? Sì, dal primo minuto», per riassumere con una frase della biologa inglese Bryce Stewart.

Seaspiracy - Esiste la pesca sostenibile? è un film di 90 minuti diretta da Ali Tabrizi, videomaker inglese ventisettenne, ed è disponibile su Neflix dal 24 marzo. Il titolo del film è una crasi tra Sea, mare, e conspiracy, cospirazione. Tabrizi, che è anche il narratore e protagonista del documentario, parte alla ricerca di una risposta all'eterna domanda: Quanto male fa all'ambiente la pesca incontrollata?.

Tabrizi, che si dichiara fin da subito un appassionato di vita acquatica e animali marini, si imbarca in un viaggio fatto di reportage, statistiche, interviste, registrazioni nascoste. La prima tappa a cui assistiamo è l'incursione del regista a Taiji, una baia in Giappone, dove da secoli si attirano migliaia di delfini per catturarli. I metodi sono violentissimi e per la troupe è persino difficile avvicinarsi ai luoghi dove si svolge la mattanza: ci sono forze di sicurezza e protocolli che vietano le registrazioni.

Il regista poi affronta il tema della caccia agli squali, uccisi per le loro pinne, un cibo prestigioso in alcuni angoli di Asia. Se in media muoiono solo 10 persone all'anno per gli attacchi degli squali, ma «gli esseri umani ne uccidono tra gli 11.000 e i 30.000 ogni ora». Oltre a queste due specie, tante altre sono vittima della pesca a strascico e della cattura accessoria. A cui si aggiunge il problema della plastica: buona parte dei materiali dispersi negli oceani arriva proprio dalle reti e dal materiale da pesca. Secondo il regista non ci si può nemmeno degli allevamenti ittici definiti sostenibili. Il suggerimento finale di Seaspiracy è uno solo: per salvare il mare bisogna smettere di mangiare pesce.

I social network si sono scatenati. In un primo momento è arrivato lo shock. Kourtney Kardashian, sorella di Kim, ha detto a i suoi 115 milioni di fan che «grazie a questo film smetterò di mangiare pesce». Altri vip l'hanno seguita.

Poi, però, è piombato sulla scena il fact-checking. Giornalisti e associazioni ambientaliste (ma anche gli stessi operatori del settore ittico) hanno iniziato a mettere in dubbio le affermazioni del documentario. Statistiche sbagliate, altre isolate dal contesto. Per citare l'esempio più eclatante: Tabrizi cita la previsione secondo cui «entro il 2048 gli oceani saranno privi di pesci».

Si riferisce a uno studio dell'ormai lontano 2006 realizzato dal biologo marino Boris Worm della Università Dalhousie in Canada. Lo stesso Worm, nel 2009, ha ammesso di aver sbagliato completamente la previsione, e ha ritirato lo studio. «Nel 2048 organizzerò una festa con un menù a base di pesce», ha ironizzato Worm nella smentita.

Il regista ha provato a rispondere alle critiche di questi giorni: «Non siamo scienziati né abbiamo detto di esserlo», ha detto. Ma gli stessi esperti che compaiono nella pellicola hanno accusato la produzione di aver estrapolato le loro affermazioni cambiandone il senso.

Una sintesi più moderata sembra necessaria. «Ci sono luoghi e popolazioni che hanno trovato metodi sostenibili per far ripopolare i mari, come succede con il branzino cileno o i naselli della Namibia» spiega l'ong Marine Stewardship Council.

Isabella Pratesi, direttrice delle politiche di conservazione del WWF spiega: «Di tutti i sistemi, quello maggiormente responsabile della crisi ecologica che stiamo vivendo è il sistema alimentare: quello che mangiamo determina il 70% della perdita di biodiversità nel mondo.

Nei paesi sviluppati ridurre il consumo di pesce è doveroso, ma non si può fare altrettanto in quei paesi dove la pesca è la principale fonte di proteine. La soluzione è una pesca che rispetti l'ecologia marina».

Non è la prima volta che un documentario di Netflix subisce critiche di metodo. Era successo di recente anche con The Social Dilemma, il doc dedicato agli algoritmi di Facebook&Co, dove in nessun modo era presente una voce contraria alla tesi del film. Prima ancora era stato il turno di Cowspiracy di Kip Andersen sugli allevamenti intensivi, a cui Seaspiracy si è ispirato (e Anderson stesso ha aiutato a produrre).

Le critiche alla piattaforma riguardano la presentazione senza filtri di lavori di opinione a favore di reazioni forti. Il rischio, secondo i critici, è che tutto il modo di fare (e produrre) documentari ne risenta: perché preferire un noioso documentario attento a presentare correttamente le sfaccettature di un problema, quando esistono documentari d'opinione così spettacolari e convincenti? Netflix non è la prima a farlo (si pensi ai lavori di Michael Moore), ma quella con più potere e influenza.

Facendo così si ottiene una reazione immediata e forte, come lo shock provocato da Seaspiracy, un effetto del tipo "o con me o contro di me", totalizzante e settario, ma nel lungo termine si centra il risultato contrario: assuefazione e scarsa credibilità. In definitiva, si rischia di fare più danni che benefici, nonostante le buone intenzioni. Nel racconto del reale il fine non giustifica i mezzi e la complessità non si può spiegare con un solo punto di vista.

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