Il valore della meritocrazia, una missione per gli atenei

Il valore della meritocrazia, una missione per gli atenei
di Roger Abravanel*
9 Minuti di Lettura
Sabato 21 Agosto 2021, 06:39 - Ultimo aggiornamento: 06:40

Nessuna categoria socio economica ha rifiutato le idee contenute nel mio ultimo saggio «Aristocrazia 2.0, la nuova élite per salvare il Paese» con più veemenza dei docenti universitari italiani che sono divenuti negli anni il nemico numero uno della meritocrazia nel nostro paese. Nel saggio racconto quanto, grazie alla economia della conoscenza esplosa nel nuovo secolo, i migliori atenei del mondo hanno accelerato il loro ruolo di motori della economia oltre a quello tradizionale di diffusori e formatori di cultura: i loro laureati creano aziende che producono milioni di posti di lavoro ben retribuiti e ricchezza per il loro paese, all'interno di un ecosistema costituito dalle università, venture capitals e grandissime aziende.

Per questo nel nuovo secolo sono diventate così importanti le classifiche che premiano gli atenei eccellenti, quelli che vincono la competizione globale per i migliori talenti, docenti, ricercatori e studenti, e attraggono i migliori investitori. Sono eccellenti research universities e non solo ottime teaching universities.

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LE POSIZIONI

La prima delle critiche di molti docenti antimeritocrazia rifiuta proprio la nuova crucialità dell'eccellenza che sta dietro a queste classifiche. «Quarantuno atenei italiani tra i primi 1300 nelle classifiche mondiali!». Così si sono autocelebrati, ridimensionando la gravità del fatto che la  migliore università italiana, il Politecnico di Milano è la numero 150 del mondo in queste classifiche. Ha 40 mila studenti, il doppio degli studenti dell'ETH di Zurigo (numero 6) e delI'Imperial College (numero 9), ma ha avuto un solo premio Nobel (50 anni fa) contro 27 dell'ETH e 20 dell'Imperial. È una ottima teaching university, ma una mediocre research university.

La priorità di gran parte delle università italiane non è l'eccellenza della ricerca ma quella di laureare il più alto numero di studenti (anche perché sono finanziate in base al loro numero). Obbiettivo che realizzano anche con un buon livello di qualità media della didattica testimoniato dal fatto che la maggioranza dei laureati trova lavoro in Italia e all'estero. Se siamo il fanalino di coda come numero di laureati e i pochi che si laureano e lavorano in Italia sono sottopagati non è solo colpa loro, ma anche del bassissimo numero di grandi aziende, quelle che vincono nella economia della conoscenza e creano i high value jobs ben retribuiti per i laureati. Ma produrre laureati di buona qualità non basta. Google è nata da due alunni dell'Università di Stanford, i cui laureati eccellenti hanno anche creato Yahoo, Cisco e Sun Microsytems e altre 40mila aziende che hanno creato più di 5 milioni di high value jobs.

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Il rifiuto delle  classifiche come misura dell'eccellenza e della qualità è l'altra critica più ricorrente da parte dei docenti anti-meritocrazia. «Sono fatte dai cinesi e americani», «gli atenei italiani non sanno fare lobby». «I pesi ai vari criteri sono sbagliati». Non si rifiutano solo le classifiche, ma qualunque forma di misura, di premi, di test (come gli Invalsi) che evidenziano qualcuno che è più bravo di un altro, che è l'essenza della competizione. Il cui rifiuto è purtroppo endemico nella nostra società (la considera irrimediabilmente truccata) ma nel caso degli atenei diventa particolarmente forte anche per colpa dell'antico credo che la «università deve fare cultura» e che la «cultura non è misurabile».

LA REALTÀ

La realtà è un'altra. Le classifiche sono diventate cruciali proprio nel nuovo secolo dell'economia della conoscenza perché servono ai migliori studenti, ricercatori e docenti per scegliere il proprio ateneo e ai finanziatori per decidere chi finanziare sia che si tratti di finanziatori privati che pubblici.
È dal 1994, da quando Carlo Azeglio Ciampi creò l'osservatorio per la valutazione del sistema universitario italiano, che lo Stato italiano cerca invano di valutare gli atenei italiani per dare un po' di premialità ai finanziamenti pubblici all'università.

Dopo l'osservatorio è nato il Civr, poi l'Anvur, sono cambiate le sigle ma non è successo nulla, sempre per colpa della strenua opposizione dei docenti. L'ultima, quella del 2020 contro l'Anvur, contesta la eccessiva quota premiale agli atenei con punteggio più alto. La realtà dimostra il contrario: il migliore degli atenei ha il 6% in più di finanziamento della media e il peggiore 6% in meno. Siamo lontani dalla logica del winner takes all.

Il terzo tipo di critica si rivolge alle cause della cattiva performance delle università italiane che viene attribuita in gran parte alla mancanza di fondi. Questa è sicuramente una giusta osservazione. La analisi comparativa tra il politecnico di Milano, l'ETH di Zurigo e l'Imperial College (460 milioni di euro contro 1,5 e 1,2 miliardi) la conferma appieno. Purtroppo si dimenticano due fatti. Il primo è che dove i finanziamenti sono in gran parte pubblici come in Svizzera, se lo stato dà 1,1 miliardi l'anno a ETH non li dà a tutte le università - non vale il mantra nostrano che «le università sono tutte eguali» (e quindi la premialità nel loro finanziamento deve essere risibile). 

La seconda dimenticanza è la constatazione che l'economia della conoscenza sta spingendo nel mondo il modello di mercato del finanziamento degli atenei (rette, grants di ricerca in gara e finanziamenti da parte di imprese), con riduzione del finanziamento pubblico,  come quello dell'Imperial College, in alternativa a quello interamente pubblico del ETH di Zurigo. Modello di mercato che ormai è realtà anche in atenei pubblici come Oxford e Cambridge (ormai solo il 20% di finanziamento dallo stato inglese) e nelle migliori università pubbliche Usa come Berkley, che oggi ha solo il 14% di finanziamento dallo stato della California. Lo stesso Politecnico di Milano ha già oggi più di 50 percento del suo finanziamento di mercato e non dallo Stato. Anticipando le critiche che ciò «lede il diritto allo studio», ricordo che in tutti questi Paesi gli studenti meritevoli e bisognosi possono contare su borse di studio e finanziamenti (peraltro esistono anche da noi alla Bocconi e allo stesso Politecnico).

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LE CONSEGUENZE

È così che, mentre all'estero le Università sono i templi della meritocrazia, da noi sono i bastioni del nepotismo con scandali a go-go che sono perfino arrivati a coinvolgere la autorità anticorruzione. Il rifiuto della pessima performance dei nostri atenei e delle varie classifiche che la testimoniano è divenuto addirittura una piattaforma ideologica di aggressione senza alcun pudore alla meritocrazia. Nel mio saggio riporto decine di saggi e articoli nei quali molti illustri accademici hanno riversato la loro sapienza ed autorevolezza contro la ideologia della meritocrazia . «Università, non sarà la meritocrazia a salvare gli atenei italiani». «Contro la meritocrazia». «Meritocrazia adesso basta». «I tristi imperi del merito». «Attenti al merito». «Contro la ideologia del merito».

Cosa c' è dietro questo sfrontato rifiuto della meritocrazia da parte di tanti professori? Sicuramente c'è il desiderio di mantenere i propri privilegi di potere e reddito che sarebbero messi in pericolo se anche negli atenei italiani nascesse la competizione. Ma c'è anche l'idea pseudomorale che gli atenei che abbracciano la meritocrazia, associandosi a un risultato economico, alimentano la crescente diseguaglianza considerata immorale anche perché i meriti individuali non esistono veramente perché dipendono dalla fortuna, da Dio o dalla genetica e comunque non sono misurabili. Da qui l'unico vero valore morale, «la cultura», che deve restare la missione principe delle università.

A parte il danno che queste idee hanno fatto ai nostri atenei, ai giovani e al Paese, non si può non notarne la estrema ipocrisia. I docenti che tuonano a destra e a manca contro la diseguaglianza difendono un modello di istruzione aristocratico-feudale pensato per chi non deve guadagnarsi da vivere grazie all'istruzione perché il lavoro non è necessario dato che la ricchezza si eredita. Se nel medioevo i migliori rampolli facevano i militari o entravano in politica, oggi hanno il posto di lavoro assicurato nell'azienda di famiglia. A che serve una ottima laurea?

Cosa fare allora per uscire dallo stallo in cui si trovano i nostri atenei? È necessaria una vera e propria rivoluzione delle università italiane con l'obbiettivo di avere almeno un paio di atenei italiani eccellenti research universities tra i primi 100 in un tempo non biblico. È una delle leve per salvare la nostra economia quando terminerà la droga del Recovery Fund, per esempio facendo rientrare qualcuno dei migliaia di cervelli italiani offrendo loro la possibilità di fare ricerca e didattica in un ateneo eccellente (o comunque deciso a diventarlo), producendo talenti che poi creeranno aziende innovative, magari con l'aiuto di fondi private equity anch'essi pieni di talenti italiani emigrati.

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LA VIA PRAGMATICA

Nel saggio ho suggerito una via pragmatica che riconosce che è pia illusione che lo Stato italiano diventi come quello svizzero e dia improvvisamente più fondi premiali ai migliori atenei. Si deve partire dai migliori atenei italiani che devono rinunciare gradualmente anche a parte dei fondi pubblici e finanziarsi sempre più sul mercato conquistando l'autonomia necessaria per attrarre, promuovere e retribuire i migliori docenti, Phd e post Doc. I quali, a loro volta, negli anni attrarranno sempre più finanziamenti in competizione con i migliori del mondo, che si tratti di grants, finanziamenti di imprese, donazioni di Alumni o rette. È possibile e lo ha dimostrato l'Iit di Roberto Cingolani e lo stesso Politecnico di Milano che già è finanziato sul mercato per 50% del suo budget.

Si deve affrontare Il tema delicato delle rette: al Politecnico di Milano le rette massime di 3.900 euro all'anno sono un terzo di quelle della Bocconi e molto più basse di quelle dell'Imperial College (10 mila sterline per gli inglesi e 17 mila per gli stranieri): basterebbe aumentarle per gli studenti che possono pagarle (aumentando anche le borse di studio) per compensare totalmente la perdita di fondi pubblici. Ovviamente è un caso limite e comunque il finanziamento pubblico dovrebbe restare, ma solo per le borse di studio degli studenti meno abbienti e in misura molto più significativa di oggi: i 5mila euro di diritto allo studio disponibili oggi coprono solo in parte i costi di trasferta di un giovane che dal sud deve trasferirsi a Milano.

Il processo graduale di ricerca dell'eccellenza nella ricerca in pochi atenei italiani deve prevedere anche la riduzione del numero dei laureati in queste università per concentrarsi più sulla qualità e meno sulla quantità. Può sembrare contrario anche all'obbiettivo sociale di aumentare il numero di laureati in un paese che ne ha così pochi, ma non lo è. I paragoni internazionali dimostrano che il gap è soprattutto sui laureati triennali, non sulle lauree magistrali. E i laureati triennali dovrebbero aumentare nelle altre università più concentrate sulla didattica e restituire dignità ai giovani laureati italiani nel mondo del lavoro. Chi deve avviare questa rivoluzione meritocratica dal basso degli atenei italiani? I docenti e ricercatori migliori magari guidati da rettori coraggiosi, che oggi sono una (spero) maggioranza silenziosa e rassegnata. Ma soprattutto gli studenti che devono protestare in piazza non più per il diritto allo studio ma per il diritto al lavoro.
 

*Direttore emerito di McKinsey, saggista e presidente dell'Insead Council Italia
 

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