Se anche James Joyce finisce in una buca...

di Mario Ajello
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Domenica 16 Febbraio 2014, 09:04 - Ultimo aggiornamento: 09:06
Le strade di Roma

hanno buche cos

grandi che dentro ci sono

chioschi che vendono panini




@BaseGiulioBase



Chissà se anche James Joyce è finito dentro a una delle buche di Roma. Ma certo che c’è finito dentro. Come tutti. Anche perchè, se qualcuno legge le lettere che il grande autore scrisse da Roma e poi osserva la data di quelle missive, può credere che egli fosse venuto qui nel 1906. E invece, sembra che ci sia venuto oggi almeno a giudicare dal degrado che descrive e dalla cattiva salute in cui vede la città. Ecco, Joyce sta visitando la Roma di Ignazio Marino.

Una città che «non sa che cosa essere». Peggio. Racconta dell’Urbe senza scopo e senza obiettivo come di una città - la metafora è bellissima nella sua spietatezza abbastanza vera - somigliante a «un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere della nonna». Insomma, rovine senza sviluppo. Bella l’immagine joyciana sugli impiegati e sui frequentatori dei caffè che sciamano e s’incontrano e di dicono vicendevolmente: «Di’ un po’....». E tra un «di’ un po’» e l’altro, nessuno ha niente da dire perchè nessuno sa più in che città vive perchè non c’è una politica in città. Joyce incontrò il sindaco Marino? No. O forse, sì. Boh. Trovò pittoresca, come capita a tanti viaggiatori la città priva di guida e priva di orgoglio di se e forza innovativa? No. La trovò desolante. E davvero, forse, non vide la Roma del 1906, da cui scappò dopo sette mesi, ma la Roma di adesso.



mario.ajello@ilmessaggero.it