Ostia, il pentito dei clan: così compravamo il giudice

Ostia, il pentito dei clan: così compravamo il giudice
di Andrea Ossino
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Martedì 4 Marzo 2014, 13:36
Un tratto di spiaggia sul lungomare Toscanelli di Ostia dato in concessione a un istituto religioso di suore e affidato per la manutenzione e la pulizia al clan Fasciani-Triassi.

Un giudice romano da “oliare” con regali di valore attraverso un avvocato. E ancora, denaro, tanto denaro, da recuperare per tentare di facilitare l’uscita del boss dal carcere. C’è questo e molto altro nel fascicolo d’inchiesta sulla mafia che spadroneggia sul litorale. C’è la gestione dei lidi, l’usura e il traffico di stupefacenti, e ci sono centinaia di pagine di omissis che fanno capire quanto il lavoro della magistratura stia andando ancora avanti.



IL PENTITO

A dare una mano al procuratore Giuseppe Pignatone e al pm Ilaria Calò, titolari dell’inchiesta, ci ha pensato anche Sebastiano Cassia, personaggio, a livello criminale, con un curriculum di tutto rispetto. Nato a Siracusa, classe 1964, vent'anni di carcere alle spalle, era uno dei «ragazzi di Santa Panagia», la cosca siracusana affiliata ai Nardo di Lentini e ai Santapaola catanesi. Cassia ha scelto di collaborare con la giustizia, «perché - ha spiegato - ho fatto una revisione di me stesso». Nella sua ricostruzione parla dei rapporti tra i Triassi e i Caruana-Cuntera, delle dinamiche che hanno portato agli attriti avvenuti tra le famiglie che, per l’accusa, comandavano a Ostia, e della successiva pax.



IL GIUDICE

Nel suo verbale di interrogatorio Cassia racconta anche di un avvocato, tale Marco, considerato fondamentale per “comprare” a suon di regali un giudice che avrebbe potuto aiutare il clan. «Questo avvocato - dice - viene contattato soltanto per fare dei movimenti e mi risulta essere stato contattato anche dai Fasciani. Un giorno, mentre mi trovavo in una cella del tribunale di Roma ho assistito a un colloquio. Marco parlava con Carmine Fasciani e gli diceva: Guarda che il giudice non vuole soldi in contanti, vuole regali. Mi ha chiesto se c’avevo qualche orologio Rolex, così questa pratica va avanti, ha detto».



IL LIDO DELLE SUORE

Ma non è tutto. «I Triassi - scrivono i carabinieri in un’informativa - attraverso una ditta intestata al genero di Vito, Manuel Sannino, gestiscono da circa un anno un tratto di spiaggia sul Lungomare Paolo Toscanelli, formalmente in concessione a un istituto religioso di suore che, per la pulizia e le attività di manutenzione dell'arenile avevano delegato la ditta del Sannino, con una scrittura privata». Quel tratto di spiaggia era stato dato alla famiglia Triassi come risarcimento, in quanto Fabio Luzi, socio di Fabrizio Spadoni, non era riuscito a fare ottenere al clan l'assegnazione di un bando per la gestione delle spiagge libere. «In seguito - si legge ancora negli atti - dopo un allontanamento tra Luzi e Spadoni, quest'ultimo avrebbe avanzato a Vito delle pretese di partecipazione alle attività della spiaggia». La stessa spiaggia gestita dalle suore, dove c’era una colonia per bambini.



L’AGGUATO

Sono trascorsi sette anni da quando i carabinieri di Ostia hanno intercettato le conversazioni avvenute nell'abitazione di Vincenzo Triassi. Secondo i militari, quelle conversazioni aiutano a capire i motivi che stanno alla base dell'agguato, avvenuto nel settembre del 2007, ai danni di Vito Triassi, fratello di Vincenzo. Il diverbio era nato tra i Triassi e quelli che i carabinieri ritenevano essere gli autori materiali dell'aggressione, Roberto De Santis e Roberto Giordani. Subito dopo l'agguato, raccontano i carabinieri, Vincenzo non aveva ben chiaro quale fosse il motivo alla base dello scontro. Così parlava con i suoi uomini, nella sua abitazione, cercando di capire i possibili moventi. Mentre negli atti viene spiegato che «l’attrito con Spadoni era nato per l'attuale gestione della spiaggia della colonia».

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