Due dottoresse ucraine si mettono a disposizione della Asl: pronte ad aiutare e assistere sotto il profilo sanitario tutti i profughi

Due dottoresse ucraine si mettono a disposizione della Asl: pronte ad aiutare e assistere sotto il profilo sanitario tutti i profughi
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Sabato 26 Marzo 2022, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 15:39

RIETI - Dopo aver accompagnato i bambini a giocare nell’altra stanza, le dottoresse Kateryna Sobka, 33 anni, e Liliia Prudka (39) raggiungono la sala da pranzo. Sgomberano il tavolo dai colori con i quali Artur, 4 anni figlio di Liliia, Anhelina 9 anni e Danil 2 anni e mezzo, figli di Kateryna, stavano disegnando nell’appartamento messo a loro disposizione dalla cooperativa sociale Il Volo di Rieti di cui sono ospiti. Non parlano ancora italiano, una connazionale si offre come interprete, però assicurano di volerlo apprendere quanto prima e si sono già iscritte a un corso. Sorridono con gentilezza, ma la mascherina gli occhi non li copre. Basta nominare i mariti rimasti a combattere in Ucraina, chiedere come era la loro vita prima del 24 febbraio e diventano subito lucidi. 

I certificati di laurea. Nelle mani stringono i certificati di laurea. Sono entrambe ginecologhe e sono disponibili a riprendere qui la loro professione, magari aiutando le strutture sanitarie locali a gestire donne e gestanti ucraine. Hanno studiato insieme e quell’amicizia nata sui banchi dell’università oggi, nel momento più difficile delle loro esistenze, si è fatta ancora più salda. Così, quando Dnipro – città al centro dell’Ucraina con quasi un milione di abitanti dove risiedevano – era ormai pericolosa per i propri figli, sono scappate insieme.

Hanno impiegato più di due giorni per arrivare a Rieti, dove la mamma di Liliia vive e lavora come badante. Dopo aver preso il treno da Dnipro per Leopoli, hanno proseguito in autobus, ma hanno dovuto sostare 29 ore alla frontiera. Il viaggio è stato lungo e complicato. Soprattutto per i bambini. 

«Se non fosse stato per loro, non saremmo mai partite. Ma lo abbiamo fatto per metterli al sicuro. Non capiscono bene cosa stia accadendo – spiega Liliia, trattenendo le lacrime - e continuano a chiedere se quando finirà la guerra torneremo a casa, nel loro giardino, dai loro amici, a parlare la loro lingua». Anche loro, come tanti ucraini in fuga, non credevano potesse accadere. Pensavano a una crisi passeggera. In realtà, sperano tutti i giorni che finisca presto. Lo ripetono al termine di ogni frase. Ringraziano i tanti reatini che dall’11 marzo, data del loro arrivo in città, stanno mostrando solidarietà, donando vestiti e giocattoli ai bambini, ma vogliono indietro la loro vita. Una vita normale, fatta di bellezza e difficoltà. 

Il primo giorno di guerra. Il primo giorno di guerra è un ricordo indelebile. Liliia era in ospedale e non vedeva l’ora di tornare a casa per abbracciare suo figlio. «Ho lavorato – dice - fino alla partenza e siccome mi trovavo dall’altra parte della città, ogni volta temevo che venissero distrutti i ponti e di non poter più rivedere mio figlio e la mia famiglia. Una paura costante. Quando suonava la sirena dovevamo scendere con tutte le donne incinte nel bunker e alcuni bambini sono nati lì». Il frastuono dei combattimenti a Kateryna, che prestava servizio presso una clinica privata, sembrava «un temporale, poi mio marito, militare, mi ha detto che era scoppiata la guerra».

Al momento la clinica di Kateryna non funziona e Liliia è in ferie non retribuite. Sperano di rientrare in patria tra qualche mese. Ma vogliono dare un senso alle loro giornate, ritrovare uno stimolo capace di conferire una parvenza di normalità a questa nuova vita, mentre la precedente «è rimasta congelata. Amiamo il nostro lavoro e siamo pronte a riprenderlo fin da ora. Per aiutare in ospedale – spiegano le due dottoresse mentre mostrano tutti i documenti che certificano le loro competenze – assistendo le connazionali in campo ginecologico o dove c’è necessità». 

La confessione. Parole semplici che profumano di dignità. Lo stesso valore traspare quando Kateryna confessa che le manca persino «l’odore della mia città e la routine. A volte non la sopportavo, oggi la vorrei indietro». Liliia rimpiange i viaggi con la famiglia, fatti negli ultimi anni. Vorrebbe farne ancora. Anche in Italia, «perché è bellissima da vedere. Ma da turista, non così». 

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