Rieti, coronavirus: Il medico malato che ha portato gioia in corsia

Vincenzo Bernardo
di Daniela Melone
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Lunedì 9 Novembre 2020, 00:15 - Ultimo aggiornamento: 13:11

RIETI - Nelle corsie degli ospedali in lotta contro il coronavirus, la solitudine è uno dei sentimenti più comuni tra i pazienti. Spesso il carico di lavoro non consente al personale sanitario di soffermarsi sulle urgenze di ciascuno. Se però il paziente Covid è allo stesso tempo medico, le cose possono cambiare. Ecco allora che anche il più temibile dei reparti, malattie infettive, può diventare un luogo di speranza. 

E’ capitato al de Lellis di Rieti, dove lavora Vincenzo Bernardo, 46enne cardiologo interventista (emodinamista). Romano di nascita, reatino d’adozione, Bernardo opera dal 2015 nello staff dell’Unità operativa complessa di Cardiologia diretta dal dottor Amir Kol. E’ abituato a lavorare in emergenza, indossando tutto il giorno un pesante camice piombato. Quando lo scorso 31 ottobre si è svegliato con mal di testa e un forte dolore alla schiena, ha pensato fosse per via del lavoro. La notte non dorme molto, come chi è abituato ad essere sempre pronto in caso di vite da salvare. Quella notte l’aveva trascorsa a scrivere una lettera alla sua bambina, che proprio l’indomani avrebbe spento 10 candeline. Anche stavolta non sarebbe riuscito a mantenere la promessa fatta, di stare insieme per la festa. «Stavo ancora bene - racconta - ma dopo due ore precipitai all’inferno. Mentre scendevo le scale di casa per andare in ospedale, mi sono domandato se quella sarebbe stata la mia ultima valigia. Ero solo, la mia famiglia vive a Roma, mi sono fatto forza. Pensavo a mia moglie e ai bambini, che non vedo dall’11 ottobre. La loro vicinanza è stata fondamentale».

«Se ti senti meglio è perché siamo andati in Chiesa a pregare per te e Giulia ha fatto la Comunione». 
Così il piccolo Federico, 6 anni, fa il tifo per il papà, inviando un messaggio vocale che scalda il cuore. Vincenzo racconta il primo giorno nel reparto di rianimazione e poi l’arrivo a Malattie infettive, dove è rimasto fino al 6 novembre. Ha avuto polmonite, febbre alta, cefalea, tosse, affanno, congiuntivite e perdita dell’olfatto. Appena tornato in forze però, ha deciso di offrire il proprio contributo di medico in reparto. «Ogni giorno – raccontano i malati – aveva la sua missione, pronto ad aiutare con una parola o con un gesto».

Le telecamere di videosorveglianza lo riprendono alle prese con i vicini di letto, li imbocca, li rassicura, è al loro fianco con amore. Pazienti che all’inizio si sono chiesti chi fosse così folle da girare in quel reparto indossando solo la mascherina. «Un uomo lodevole – racconta chi l’ha conosciuto – Nonostante la sua condizione ha dato un grande aiuto, sempre disponibile verso chi non riusciva neanche a rispondere al telefono, ha offerto da bere, acceso una luce, donato il suo menù, alle volte più gustoso». La generosità del dottore ha origini lontane. Da bambino, a Natale, con i suoi genitori, entrambi medici, andava a portare doni ai malati più poveri e a chi non aveva nessuno al mondo. 

Voleva fare il cabarettista «per far ridere gli altri», ma a sei anni scelse l’attuale professione quando, sfogliando l’enciclopedia medica dei suoi, la fantasia cominciò a volare davanti l’immagine del cuore. «Passavo ore fantasticando di essere Tarzan e scivolare tra le valvole. Quando studiavo medicina, invece, mi ispiravo a Pantani e alle sue scalate. Era una fatica, ma chiesi aiuto a Dio, promettendo di restituire quello che mi ha dato. Ho sofferto e superato tante prove, ma la vita mi ha regalato molto di più, anche il Covid. E’ stato come passare tra le fiamme dell’inferno senza essere scottato. Ho avuto la possibilità di operare tra i malati solo con la mascherina, avvicinarmi, dire loro sono come voi. Noi medici facciamo il lavoro più bello del mondo e chi vuol intraprendere questo percorso rappresenta un bene prezioso per l’umanità, un patrimonio da tutelare e non da scoraggiare con test d’ingresso o con il numero chiuso all’università. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati accanto. Malattie infettive, diretto dal collega Mauro Marchili, sta diventando un reparto di terapia subintensiva e colleghi da fuori città ci fanno i complimenti. Pur tra tante difficoltà, l’Asl di Rieti si sta facendo onore e trovo che in questo buio ci sia sempre speranza. Continuiamo a lottare, non vedo l’ora di tornare a lavoro».

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