La notte della politica/Trasparenza, un totem in frantumi

di Mario Ajello
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Sabato 17 Dicembre 2016, 00:03
L’ombra del personaggio era così lunga che ormai stava diventando difficile non inciamparci. Eppure era sotto gli occhi di tutti, nonostante i sospetti che Raffaele Marra destava, la pervicacia con cui in questi sei mesi di burrasca il sindaco Raggi ha tenuto al suo fianco - come un Rasputin in salsa romana - il suo vero uomo operativo. Di cui i conoscitori degli arcana imperii del Campidoglio hanno sempre detto: «Comanda lui». Adesso invece Marra, in un rovesciamento surreale al tempo della post-verità, si trasforma di colpo, nelle parole del sindaco, in uno qualunque. Non più «uno del M5S», come la Raggi sosteneva di fronte a chi, a cominciare da Beppe Grillo, dentro il movimento non ha fatto che ripeterle fin dall’inizio di liberarsi di lui, in quanto figura “opaca” (e ora si scopre anche più che opaca). 
Si è minimizzato prima a proposito di Marra e si minimizza adesso. No, non è «uno dei 23 mila dipendenti comunali» il braccio destro del sindaco. Quello sospettato, ad esempio, di aver tramato per spingere alle dimissioni la Raineri e Minenna.

Due pezzi pregiati - o almeno professionisti meritevoli di altra sorte - della cabina di comando capitolino. Nel mini discorso del primo cittadino, pronunciato ieri in Campidoglio, c’è dunque un deficit di consapevolezza della gravità di ciò che è accaduto. E uno stile di autodifesa - non vedo, non sento, non parlo: a parte un breve comunicato letto in aula - che rimanda ai momenti peggiori e ai personaggi minori della Prima Repubblica. Il ricorso allo scaricabarile (Marra non è dei nostri e «i fatti non riguardano questa legislatura»); l’auto-assoluzione senza spiegazione; la riduzione del tutto a un piccolo incidente di percorso (andiamo avanti lo stesso); la rivendicazione del monopolio dell’onestà a dispetto dell’evidenza («Noi nel 2013 facemmo una mozione contro gli affitti del Comune da Scarpellini») non sembrano contenere nulla di quella neo-politica sbandierata in questi anni dai grillini e che è stata il motore del loro successo. 

La questione vera è proprio quella della discontinuità. Il caso Marra, e la maniera in cui è stato trattato in queste ore dai vertici del Campidoglio, contiene due vulnus. Il primo sta nella rottura del rapporto di fiducia con i cittadini, che fin dall’inizio non hanno capito bene chi fosse questo personaggio. E dunque è stato tradito, sotto gli occhi dei romani, il totem della trasparenza ed è andata in frantumi, e seppellita sotto pareti alte, spesse e impenetrabili, la retorica del Palazzo Senatorio come “casa di vetro”. Il secondo vulnus che contiene questa storia è quello ai danni del movimento 5 Stelle. Che ha sempre fatto della discontinuità la propria bandiera politico-culturale e da subito, da Grillo in giù, ha avuto la sensazione che qualcosa non funzionasse da questo punto di vista nelle stanze del Raggio Magico, di cui Marra è stato personaggio cruciale e protetto.

Derogare al principio di una nuova selezione del personale amministrativo, portatore di logiche diverse e di metodi innovativi, per legarsi invece a figure che vengono dalle nebbie del passato, ha insomma riportato indietro l’azione o l’inazione del governo cittadino. Che si era proposto, viceversa, come tentativo a forte impatto di rottura e su questo approccio i pentastellati ma soprattutto la stragrande maggioranza dei romani hanno scommesso. 
Come nel caso della Muraro, l’assessore che alla fine si è dimesso sotto la prevedibilissima spinta dell’avviso di garanzia, anche per Marra si è cercato di negare l’esistenza di un problema. Finché è arrivata la magistratura a scoperchiarlo. Nella notte della politica, gli unici lampi sono gli atti giudiziari. E ciò, per quanto riguarda il buon funzionamento della fisiologia democratica, non è affatto un bene. Ma è ciò che sta accadendo.
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