Bonino e l’alleanza con il Pd: resta il nodo dei programmi differenti

di Massimo Adinolfi
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Venerdì 5 Gennaio 2018, 00:11
Tutto è bene quel che finisce bene. La pratica «firme per la presentazione delle liste» può essere archiviata grazie all’aiuto dei centristi di Bruno Tabacci, e la strada verso un accordo politico con il partito democratico si presenta adesso in discesa. Che non ci fosse, però, solo un problema tecnico dietro le fibrillazioni degli ultimi giorni è parso palese, quando la Bonino ha tenuto a precisare che in base alla legge vigente la presentazione in coalizione non richiede la condivisione di un programma politico. È così: basta vedere del resto il centrodestra, dove sono addirittura i due principali partiti, Forza Italia e la Lega, a doversi misurare con differenze programmatiche importanti, benché sia ormai data per fatta la coalizione.

Ciò detto, la domanda è tuttavia: che cosa c’è nel programma politico della lista +Europa, che la Bonino guida e anzi impersona, che potrebbe entrare con difficoltà in dialogo con i democratici? Non certo i temi europei. La lista +Europa vuole rappresentare la punta più avanzata dello schieramento europeista, quella che darebbe ogni volta ragione a Bruxelles piuttosto che a Roma. O che perlomeno rifiuta di considerare le istituzioni europee come il capro espiatorio sopra il quale scaricare tutto il peso delle contraddizioni che la politica italiana si porta dietro fin dai tempi di Maastricht: sempre europeisti a parole, spesso inadempienti nei fatti. Ma su queste posizioni c’è in realtà una convergenza di fondo col Pd, che non dubita affatto della necessità di una maggiore integrazione, che non ha alcun dubbio sulla irreversibilità della scelta per la moneta unica, e che dunque può consentirsi più o meno dialettica con la Commissione e i partner europei dentro una cornice che non viene mai messa in discussione: quella dei Trattati, e del modo in cui progredire in vista di un rafforzamento delle politiche comunitarie. Se mai, al centrosinistra manca in questo momento la capacità di trasformare il capitolo Europa nel capitolo decisivo, discriminante fra le forze politiche. L’opinione pubblica appare abbastanza disinteressata, al punto che nel centrodestra possono stare tranquillamente insieme le posizioni pro e contro dei popolari e dei populisti, di Forza Italia e Lega, senza il timore di subire uno scotto in termini elettorali. E gli stessi Cinquestelle, partiti lancia in resta contro l’Euro con la proposta di un referendum, oggi relegano la faccenda a margine rispetto alle battaglie principali che conducono: in nome dell’ambiente, del reddito di cittadinanza, della lotta contro gli sprechi e i privilegi. Chi vota centrosinistra dà sicuramente un voto europeista, e l’alleanza con la Bonino ne dà ulteriormente conferma, ma la capacità di mobilitazione su questi temi non appare, al momento, davvero dirimente.

Che altro, allora? Che cos’altro significa “più Europa”? Due cose, essenzialmente. Una è legata allo storico impegno dei radicali sul tema dei diritti civili, e alla figura stessa di Emma Bonino, che da commissaria europea si è molto impegnata sul fronte dei diritti delle persone migranti. Anche su questi temi c’è una consonanza di fondo coi democratici, sebbene sentir parlare la Bonino non è proprio come sentir parlare il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ma il Pd è stato, in questa legislatura, il partito del testamento biologico, del divorzio breve, delle unioni civili, e da ultimo anche dello ius soli, sebbene non sia riuscito a far approvare la legge. Un denominatore comune, anche in questo caso, c’è.

L’altro asset che la lista +Europa getta nella battaglia elettorale viene invece dalla sua componente liberale e liberista. E qui le cose filano forse meno lisce. Nelle scorse settimane, Emma Bonino ha formulato la proposta di congelare la spesa pubblica al livello nominale del 2017 per tutta la durata della prossima legislatura, per avviare in questo modo una significativa riduzione del deficit. Dato l’aumento della spesa pensionistica nel prossimo triennio, questo significa prevedere tagli di spesa di 10 miliardi il prossimo anno, 24 il secondo e 33 il terzo. «Doloroso ma sopportabile», a giudizio della leader radicale. Difficile però che il Pd voglia promettere una politica economica all’insegna del dolore sopportabile, mentre gli altri fanno a gara a immaginare tagli alle tasse e nuovi aumenti di spesa – sulle pensioni (Berlusconi), sul reddito di cittadinanza (Di Maio), sugli investimenti pubblici (entrambi) –. E più complicato è anche immaginare che una simile piattaforma culturale e programmatica – sia davvero congeniale al partito democratico. Ma questo è un problema che, passata la sbornia elettorale, qualunque governo sarà chiamato ad affrontare: se per essere europeisti bisogna essere anche rigoristi, per rifarsi una reputazione presso gli altri Paesi europei (ed i mercati), o se invece “più Europa” può significare provare a spostare il fulcro dell’impegno europeo dal rigore finanziario alla correzione delle diseguaglianze economiche e sociali. Pensare di contrastare la ventata nazionalista e populista che scuote il continente solo con una più austera disciplina di finanza pubblica è una mossa molto rischiosa: non è detto che riesca.
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