E il vento continua a soffiare in questa direzione. Già lo scorso luglio nell’aria si respirava un brutto presentimento quando Paul Makonda, assessore di Dar es Salaam (la città più grande del Paese), ha annunciato ai cittadini durante una festa religiosa che avrebbe utilizzato anche le piattaforme social per identificare e arrestare i sospettati gay: "Se c'è un omosessuale che ha un account Facebook o Instagram, è chiaro che chi lo segue è altrettanto colpevole”, ha detto alla folla che applaudiva.
Poi la notizia dei nuovi veti imposti alle organizzazioni. James Wandera Ouma, fondatore e direttore esecutivo di LGBT Voice Tanzania, uno dei pochissimi organismi registrati che promuove apertamente i diritti di questa comunità, ha confermato che nell’ambiente le cose continuano a peggiorare drasticamente: “Il discorso di Makonda ha piantato un odio che prima non c'era”, ha detto. Per il momento il governo non si è espresso sull’eventuale chiusura di Voice Tanzania che offre vitto e alloggio a quanti sentono il bisogno di mettersi al riparo. Ma Ouma ammette che diventa sempre più difficile riuscire ad operare: “Non siamo stati in grado di organizzare le riunioni perché tutti hanno paura di ciò che accadrà. In molti pensano 'se vado in questo ufficio, la Polizia potrebbe venire e arrestarmi'”. Intanto l’organizzazione si è messa nelle mani di un avvocato per capire come muoversi davanti alle nuove misure.
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