Italiani arrestati nel Gambia, la moglie del capitano: «In cella in condizioni disumane», interviene l'ambasciata

Sandro Di Simone
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Domenica 8 Marzo 2015, 00:29 - Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 16:24
Domenico Fornara, vice ambasciatore d'Italia a Dakar (Senegal), responsabile per il Gambia, sarà domani a Banjul per visitare in carcere Sandro De Simone e Massimo Liberati, i due pescatori italiani arrestati dopo il sequestro della nave sulla quale erano imbarcati per la presunta violazione delle dimensioni delle maglie di una rete. Lo si è appreso da fonti diplomatiche. Appena informata della vicenda dei due connazionali, condannati ad un mese di detenzione ed al pagamento di una multa, l'Ambasciata italiana in Senegal si è subito attivata per fornire loro assistenza interessando del caso il ministero degli Esteri del Gambia al fine di trovare una soluzione positiva in tempi brevi. Si è appreso inoltre che il Console onorario a Banjul ha visitato in carcere i due pescatori il 5 ed il 6 marzo.



La notizia è stata appresa dai familiari dei pescatori che però restano fortemente angosciati. Ecco la moglie di De Simone: «Ogni giorno in più in quel carcere è un giorno di vita in meno. Mio marito sandro rischia di morire, quel posto è come un lager: sono senza servizi igienici e senza cibo, neanche l'assassino più feroce viene trattato così. Sto male solo all'idea che lui stia subendo queste cose da tanti giorni. Chiediamo l'aiuto di Renzi e del ministro degli Esteri, affinchè intervengano».

«Ogni giorno in più in quel carcere è un giorno di vita in meno. Mio marito rischia di morire, quel posto è come un lager: sono senza servizi igienici e senza cibo, neanche l'assassino più feroce viene trattato così. Sto male solo all'idea che lui stia subendo queste cose da tanti giorni. Chiediamo l'aiuto di Renzi e del ministro degli Esteri, affinchè intervengano». Così all'Ansa Gianna, moglie di Sandro De Simone, il pescatore arrestato lunedì in Gambia insieme a Massimo Liberati di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno).



«Non sto vivendo più, io e i nostri figli non sappiamo più cosa fare. Siamo qui ad attendere - dice in lacrime la donna - Mio marito non ha ucciso nessuno. Non è possibile pensare che nel 2015 le persone vengano trattate in questo modo. In quel carcere non hanno la minima idea di cosa siano i diritti umani. Lì dentro, in quelle condizioni, lui rischia la vita. Se muore nessuno me lo ridarà. Vorrei che non passasse neanche un giorno di più in quel posto. Lanciamo un appello a chiunque possa fare qualcosa, affinchè intervenga». La donna, dalla sua abitazione di Silvi, ripercorre anche i suoi ultimi contatti con il marito.



«Domenica l'ho sentito per telefono, quando era ancora in stato di fermo, e mi aveva detto che il giorno dopo si sarebbe risolto tutto, che avrebbero pagato una multa e la vicenda si sarebbe chiusa. Era tranquillo. Lunedì, verso le 14, mi ha mandato un sms in cui c'era scritto Non si è risolto nulla, ti chiamo appena posso. Ho provato a contattarlo, ma non ho avuto risposta, fino a quando l'armatore mi ha detto che erano stati arrestati. Da quel momento non l'ho più sentito».



GLI ARMATORI

I due pescatori italiani rinchiusi in carcere in Gambia «sono senza cibo da lunedì.
Non abbiamo modo di parlarci, non sappiamo neanche se siano ancora vivi e temiamo per ciò che potrebbe accadere andando avanti così». Lo dicono all'ANSA dalla Italfish, società armatrice della barca su cui lavoravano. L'ufficio della Italfish srl che si sta occupando di gestire la crisi riferisce di aver saputo da fonti locali che i due italiani sono senza cibo fin dal giorno dell'arresto. L'unico che è riuscito a incontrarli, giovedì, è stato il console onorario in Gambia, secondo cui i marinai «non sono in buone condizioni nè fisiche nè mentali». L'imbarcazione era finita sotto sequestro per la presunta violazione delle dimensioni delle maglie di una rete. Dopo una decina di giorni in stato di fermo, lunedì i due italiani sono stati arrestati, a conclusione di quella che la società armatrice definisce «udienza sommaria».
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