Diversi parlamentari del Pd, quando ieri sera hanno appreso l’esito poco entusiasmante dell’incontro a Palazzo Chigi, si sono scritti e detti fra di loro: «Siamo in un cul de sac». Ovvero? La sinistra è sprofondata nella difficile situazione di non poter chiudere il dialogo con Meloni, visto che il capo del governo non ha fatto barricate contro il salario minimo e ha chiesto invece approfondimenti, confronti e altri passaggi, e di non volere essere subalterna alla strategia di Giorgia che li ha sorpresi e spiazzati, dimostrando ancora una volta che il professionismo della politica con le relative smaliziatezze appartiene più a lei che ai suoi avversari almeno in questa fase e con questi protagonisti.
Quando la padrona di casa ha proposto ai suoi ospiti di affidare al Cnel il compito di predisporre una proposta sul lavoro povero e i salari bassi che possa essere trasversalmente condivisa, «è calato il gelo sulle nostre facce», come ammette uno dei partecipanti della delegazione del centrosinistra. Nessuno di loro si aspettava una proposta del genere. E in quel momento hanno capito la trappola in cui sono caduti e da cui è difficile districarsi. Anche perché Calenda è trattativista, più degli altri, e tutti sono divisi e il leniniano «che fare?» è lo spettro con cui, mentre Giorgia torna in vacanza, attanaglia i suoi avversari.
Il Cnel
«Nessuno di noi si aspettava una proposta del genere», dicono i dem e gli altri una volta usciti da Palazzo Chigi e si riferiscono alla mossa del capo del governo sul Cnel. La stessa istituzione che, durante la riunione e quando Meloni l’ha tirata in ballo, ha suscitato nei presenti stroncature del tipo: «Ma esiste ancora?», «Non lo avevano chiuso?», «Sarebbe quel carrozzone guidato da Brunetta?». Carlo Della Vedova, con Riccardo Magi in rappresentanza di Più Europa, se n’è uscito così rivolto a Meloni, a Mantovano e a Fazzolari: «Ma non dovevate abolirlo il Cnel? E ora lo usate al posto di Montecitorio che sarebbe la vera sede dove discutere di queste cose. Dovevate chiudere il Cnel e invece chiudete il Parlamento».
Che la giornata non sarebbe stata l’apoteosi dei partiti d’opposizione era chiaro dall’inizio.
Il faccia a faccia
Il gelo tra le due. Ma sempre nulla rispetto allo scontro andato in scena nella riunione tra Conte e Meloni. Lui, che conosce l’arte professorale: «Ci hai convocato a Palazzo Chigi per non dirci niente e farci le domande a noi, come fossimo scolaretti. Non hai nessuna novità su cui lavorare insieme». Lei: «Guarda, Conte, le novità ci sono e ve le sto illustrando, e comunque la vera novità è che adesso il capo del governo e tutto l’esecutivo convocano le opposizioni e vogliono parlare con loro, mentre quando a Palazzo Chigi c’eri tu nessuno ci chiamava mai». Pare che Conte sia restato senza parole. E distinto e distante soprattutto da Calenda sbeffeggiato come «il positivista» dai colleghi d’opposizione perché è sulla linea: «Guardiamo al lato positivo dell’incontro e continuiamo il confronto con il supporto del Cnel».
Chi vuole fare muro, chi vuole muoversi con più cautele, chi riprende a dire «era meglio che non andavano», chi si rifugia - altro che Cnel! - nell’appello al popolo: «Raccogliamo le firme per il salario minimo e così staniamo Giorgia la nemica del popolo». Alla fine, Meloni ha ottenuto, come era ampiamente prevedibile, il risultato di dividere i suoi avversari e di approfondire il solco tra Calenda (dialogante) e tutti gli altri (intransigenti). E lo fa - beffa nella beffa - non togliendo dal tavolo il tema del salario minimo. Inchiodando gli altri a un dialogo che quelli non vogliono.