Referendum costituzionale, cos'è e come funziona? Da Berlusconi a Renzi, tutti i precedenti. E cosa può succedere oggi

Se non si arriva a una maggioranza dei due terzi il voto popolare è inevitabile. Il bilancio al momento parla di una perfetta parità tra "sì" e "no"

Referendum costituzionale, cos'è e come funziona? Da Berlusconi a Renzi, tutti i precedenti
di Riccardo Palmi
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Lunedì 6 Novembre 2023, 11:10 - Ultimo aggiornamento: 11:11

La riforma sul premierato lanciata da Giorgia Meloni dovrà quasi certamente passare dal referendum: anche con l'appoggio di Iv di Matteo Renzi, per arrivare a una maggioranza di due terzi mancherebbero comunque 21 voti alla Camera e 14 al Senato, non considerando i presidenti delle due aule (il leghista Lorenzo Fontana e il meloniano Ignazio La Russa), che per prassi non votano. Tanti, quasi sicuramente troppi, nonostante dalla maggioranza siano qualcuno evochi una riforma concordata con le opposizioni, anche a costo di rinunciare a qualcosa. 

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Come funziona il referendum costituzionale

L'articolo 138 della Costituzione prevede per le riforme costituzionali una doppia approvazione (con un intervallo non minore di tre mesi) sia da parte della Camera che del Senato. Necessaria poi la maggioranza assoluta dei componenti (gli assenti quindi votano contro) nella seconda votazione. Se però la riforma non passa con una maggioranza di due terzi in ciascuna Camera, entro i successivi tre mesi allora un quinto dei membri di una Camera – oppure cinquecentomila elettori o ancora cinque Consigli regionali – possono chiedere il referendum. La soglia piuttosto bassa concessa alle opposizioni (il 20% dei parlamentari di una sola Camera) rende il referendum scontato. La consultazione non prevede nessun quorum: se se vincono i "sì" la riforma passa, in caso contrario viene bocciata.

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I precedenti

Fino al Duemila, il metodo più usato per cambiare la Costituzione erano le Commissioni Bicamerali (la più famosa quella guidata da D'Alema), che però non hanno mai prodotto grandi risultati. Con la riforma del Titolo V, si sperimentò invece con successo la riforma prevista dall'articolo 138, e i precedenti dicono che si arrivò sempre al referendum, con due vittorie a testa tra "sì" e "no". Nel 2001, il centrosinistra lanciò la sua riforma sul rapporto tra Stato e Regioni (tema disciplinato appunto dal Titolo V della seconda parte della Carta) per inseguire la Lega Nord sul terreno dell'autonomia.

Il referendum passò con il 64% dei voti, a fronte però di un'affluenza molto bassa, pari al 34%.

Nel 2006, ci provò allora il centrodestra di Silvio Berlusconi con la "devolution" (che in alcuni elementi, come il premierato, riprendeva la riforma attuale). La riforma però fu votata pochi mesi dopo l'avvento del governo Prodi bis e venne bocciata dal 61% degli elettori (l'affluenza sali invece al 52%). Il 4 dicembre 2016, ecco la consultazione popolare sulla maxi-riforma di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, che prevedeva il superamento del bicameralismo perfetto, l'eliminazione delle province e del Cnel. Renzi, come noto, personalizzò il voto, pur essendo esattamente a metà strada tra il successo alle europee nel 2014 (quando preso il 40%) e quello successivo delle politiche (che sarebbe stato nel 2018). La riforma fu bocciata dal 60% degli elettori, ma l'affluenza arrivò quasi al 70%. Arriviamo così al referendum "anti-casta" (e ultima fiammata del grillismo) sul taglio dei parlamentari del 2020. A vincere furono i "sì" (circa il 70% dei voti) con un'affluenza più bassa rispetto al precedente (circa il 51%). 

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