Alberto Castagna, la figlia Carolina: «Mi spaventai nel vedere papà senza baffi in ospedale, ha sorriso fino all'ultimo»

Il conduttore di Stranamore è morto nel 2005, a 59 anni, per emorragia interna

Alberto Castagna, la figlia Carolina: «Mi spaventai nel vedere papà senza baffi in ospedale, ha sorriso fino all'ultimo»
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Mercoledì 23 Agosto 2023, 09:59

Per Alberto Castagna sua figlia Carolina era «"Scaro, Scarolina, Scaroletta", con la esse davanti. Mi chiamava così», ricorda al Corriere della Sera. Oggi ha 31 anni, è un medico, e rimane l’unica figlia di Alberto Castagna, del dottor Stranamore, il programma per il qualche ancora oggi tutti lo ricordano. Se ne è andato presto, nel 2005 a 59 anni, per emorragia interna. Nel luglio del 1998, ricorda il Corsera, era stato colpito da un doppio aneurisma dissecante all’aorta, 8 mesi di ricovero al Policlinico Gemelli. Lo stesso ospedale dove lei, che vive tra Roma e Philadelphia, si sta specializzando in Igiene e Medicina preventiva. Quando Alberto si ammalò Carolina era una bambina di 6 anni, 13 invece quando rimase senza di lui.

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Il ricordo di Carolina Castagna

«Era un papà affettuoso e presente, ma anche molto ragazzino, impaurito dall’idea di essere genitore.

A volte, tra noi due, l’adulta ero io». Un padre che era già malato, che doveva curarsi e rispettare delle regole. «Un giorno lo beccai in cucina a mangiare delle pesche di nascosto. Non poteva. Oppure si chiudeva in bagno a fumare e prima di uscire spruzzava in aria il patchouli. Se lo rimproveravo, sospirava: “Non ho una figlia, ma una badante”. La bacchettona di famiglia, fissata con le regole, sono sempre stata io. Mamma (la dermatologa Pucci Romano) lo copriva. Erano già separati. In coppia erano un match terribile, da amici e genitori invece fantastici. Si scambiavano le ricette delle polpette: “Però sono meglio le mie”».

Un padre «buonissimo, a livelli imbarazzanti. Pur di accontentarmi mi avrebbe concesso qualsiasi cosa». Ma non solo: «Mi viziava. Non mi chiamava “principessa”, però mi trattava come se lo fossi. Mi ha insegnato la leggerezza. Cerco di essere come lui».

Ricorda tutto, soprattutto i momenti felici: «La mattina presto, seduto su una spiaggina in riva al mare, con me in braccio, mi insegnava le correnti, i venti, le maree. Mi interrogava: “C’è libeccio o maestrale? Si può uscire in barca?”. Voleva che diventassi un bravo mozzo».

Poi all'improvviso arrivo la malattia: «Di colpo era sparito. Mamma fu molto onesta. Mi spiegò che non stava bene e che non sarebbe tornato per molto tempo. Che era ricoverato in terapia intensiva, con tanti tubi intorno. Un giorno, in classe, annunciai che era morto. La scuola chiamò subito casa. Non era vero. Mia madre capì che avevo bisogno di vederlo. Smosse mari e monti e ottenne di farmi entrare da lui. Mi vestirono con camice, cuffietta e salvascarpe, mi stava tutto largo. Sembravo il piccolo chimico».

Quando riuscì a vederlo: «Mi sono spaventata. Soprattutto perché non aveva più i baffi, glieli avevano tagliati, non lo avevo mai visto così. “Senza baffi sembro una melanzana”. Era comunque lui. Dormiva...».

Per fortuna tornò a casa. Ma non era il solito papà. «Ho capito quanto fosse fragile. Era magrissimo. I nostri abbracci spigolosi. Dovevo proteggerlo. Ero contenta che fosse di nuovo con noi, ma non era più la stessa persona. Diventai più ansiosa, meno bambina. Costretta a crescere in fretta. Fingeva di stare bene. “Sono l’uomo più forte del mondo”. Avrei preferito che non dicesse bugie, che mostrasse la sua debolezza, ma ognuno in certi momenti fa il meglio che può».

Sette anni dopo la tragica notizia, quello che nessuna bambina vorrebbe mai sentire: «Mamma rientrò in lacrime e mi disse che papà non c’era più. Era un martedì. Fino al giorno prima stava bene. Avevamo passato il pomeriggio insieme, mi aveva comprato il cd di Beyoncé. Quando, due anni fa, ho perso anche Stefano, il secondo marito di mia madre, è stata dura. Piaceva moltissimo anche a papà: “Se dovessi lasciarti, so che con lui sei in buone mani”. Da loro ho imparato che più ci si vuole bene tutti quanti e meglio è...».

La gente si ricorda sempre di lui. E scrivono a Carolina su Facebook. «Da piccola avevo paura di dimenticarlo, annusavo un maglione che conservava il suo odore. Poi ho capito che le persone vivono nel nostro ricordo, che in fondo non se ne vanno mai».

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