SDEROT Il centro di comando sud dell’esercito israeliano è immenso, una base militare grande come una città. È da qui che si gestisce la missione che sta circondando la città di Gaza. Siamo in mezzo al deserto, in una località che per ragioni di sicurezza non si può rivelare. L’area dove vengono stipati i blindati è enorme, carri armati a perdita d’occhio. Alla 14° brigata viene concesso di parlare con i giornalisti «seguendo le indicazioni dei superiori». C’è un comandante che parla italiano, si chiama Nethanel e mentre passeggia tra le macchine da guerra racconta la sua storia: «Nella vita normale faccio l’insegnante ma sono stato richiamato per guidare uno di questi». Un professore su un carro armato, è questa la realtà oggi in Israele. Nethanel schiva con la testa il cannone di un Merkava: «Vecchia roba, questa, è un seconda serie. Io sono stato al comando di un "quarta generazione", altra storia».
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Il carrista non è ancora stato impiegato per le operazioni nella Striscia, ma è in contatto con gli amici al fronte: «Non è facile combattere una guerra quando ti trovi davanti i civili, Hamas li usa come scudi umani. La differenza tra Israele e Hamas è che noi proteggiamo i civili, loro li usano per proteggersi».
In Israele la leva è obbligatoria per tutti, tre anni per gli uomini e due per le donne. Tanti sono i giovani che si ritrovano con un’arma in mano pronti a difendere il proprio paese, con tutti i rischi che comporta: «Serve disciplina, è fondamentale indirizzare i novizi. Noi siamo uomini adulti con esperienza, con le famiglie a casa che ci aspettano, non siamo diciottenni appena arruolati - spiega il tenente colonnello Daniel Helob Arama -. I rischi maggiori per i nostri soldati a Gaza sono i razzi anticarro dei terroristi e le mine. A questi si aggiungono i fucili AK-47 molto in voga tra i combattenti di Hamas. Sono minacce importanti ma non fermeranno la nostra missione, abbiamo tecnologie di difesa molto avanzate in grado di proteggere i nostri ragazzi». La logistica è un aspetto fondamentale per combattere una guerra. «Mi occupo di fornire alle nostre forze in prima linea tutto quello di cui hanno bisogno», spiega Ram, un soldato riservista che il 7 ottobre si è presentato al centro di comando pronto a dare il suo contributo: «Dopo aver realizzato cosa stava accadendo ho preparato il mio zaino e ho detto a mia moglie “non tornerò a casa finché non avrò finito la mia missione. Ci sono persone da salvare e non posso lasciare che questo accada di nuovo”».
VITE SOSPESE
Vite sospese, famiglie spezzate. Ram ha una bambina di 3 anni: «Mi manda video tutti i giorni, mi chiede quanto tornerò». Ma come fa un padre di famiglia a vivere con il rimorso di aver ucciso degli innocenti? «Lo scopo di tutto questo non è uccidere più palestinesi possibile. Noi stiamo soffrendo per via di Hamas, i palestinesi hanno lo stesso problema: Hamas li sta costringendo a rimanere a Gaza con la forza, dobbiamo fermarli». Kim è una giovane soldatessa che imbraccia orgogliosa il suo fucile d’assalto di ultima generazione, un Tar-21. Non può essere impiegata a Gaza per via della poca esperienza, però è determinata: «Non avrei paura di andare al fronte. Israele è la mia patria è farò qualsiasi cosa per difenderla. Lo devo ai caduti, al mio comandante che è morto in battaglia». Proviamo a chiederle cosa pensa quando vede le immagini di feriti e morti civili di Gaza che corrono sui social ma veniamo interrotti da un superiore: «Non è una domanda a cui lei è autorizzata a rispondere».