Sembra essere tutto pronto per l’offensiva di terra, che governo e esercito israeliani considerano inevitabile dopo la mattanza del 7 ottobre nel sud del Paese. L’obiettivo è la distruzione militare e politica di Hamas. Si riunisce ancora una volta il gabinetto di guerra, mentre risuonano nella testa dei soldati a ridosso della Striscia di Gaza le parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: «Combattete come leoni e vinceremo» ha detto incontrando i soldati del battaglione Golani dell’Idf di stanza vicino al confine di Gaza. E il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, li rincuora e incita ad affrontare l’ultima prova, la più pericolosa. «Ora vedete Gaza da lontano, presto la vedrete dall’interno, ve lo prometto». Le ambasciate israeliane all’estero mostrano i video delle uccisioni e torture a danno dei civili del Sud di Israele, a sostegno di una scelta considerata necessaria. E rilanciano il messaggio che in queste ore tutti sanno a memoria, a Tel Aviv come a Gerusalemme. «Non abbiamo alternativa, Hamas deve sparire, Israele è nato per dare la sicurezza al nostro popolo, se fallisce il suo scopo non c’è più Israele».
Sul fronte, la decisione politica si traduce nel discorso ai soldati. «Siate pronti, l’ordine arriverà.
GLI ALTRI FRONTI
E mentre a Gerusalemme si aggiorna il conto degli ostaggi, da 199 a 203, si prendono misure per scongiurare nei limiti del possibile i morti tra quanti sono stati rapiti e deportati dai kibbutz e dalle cittadine di confine negli scantinati di Gaza, scudi umani dei miliziani di Hamas. Si spara ancora contro qualche infiltrato del 7 ottobre nel Sud. E si accendono altri fronti. Presto si vedrà se le visite di Biden e altri europei abbiano solo rallentato l’ingresso di Israele a Gaza e convinto le capitali arabe a non mobilitarsi quando l’Idf irromperà. Si vedrà anche cosa faranno i pasdaran iraniani sul fronte siriano e gli Hezbollah al confine tra Libano e Israele. Sostiene il ministro della Difesa di Israele, Gallant, che la milizia sciita libanese «è dieci volte più forte di Hamas». Tredici combattenti Hezbollah sono stati eliminati negli ultimi giorni. Gli israeliani hanno colpito ieri un sito di osservazione del movimento da cui partivano razzi anticarro teleguidati che colpivano il nord di Israele. Uno scambio d’artiglieria che va avanti da più di una settimana, una guerra non dichiarata a bassa intensità che può esplodere in ogni momento. Tra i morti un “mujaheddin” Hezbollah, Ali Muhammad Marmar, originario di Atarum, sud del Libano. Accanto agli sciiti libanesi, in modo congiunto lanciano decine di razzi anche i miliziani di Hamas dislocati in Libano (dove si trovano i capi politici del gruppo). L’incendio si estende alla Siria, dove i droni hanno preso di mira due basi degli Stati Uniti: quella di Al-Tanf, al confine siriano con Iraq e Giordania, e l’altra nel nord a Conoco, vicino Deir el-Zor. Solo qualche ferito leggero tra gli americani. A operare sono le milizie della Resistenza islamica in Iraq, appoggiate dall’Iran. La grande incognita dell’azione di terra, ormai imminente, è se nel conflitto entreranno l’Iran e le sue forze satelliti dal Libano alla Siria. Per questo il presidente Biden ha inviato una seconda portaerei nel Mediterraneo orientale. E sullo sfondo, Russia e Cina stanno a guardare. Per il momento.
Nella serata di ieri, un giornalista è stato ucciso e un altro è rimasto ferito nel sud del Libano al confine con Israele. A riferirlo fonti mediche libanesi, nella zona di Hula a ridosso della Linea Blu di demarcazione tra i due paesi. Non sono ancora chiare le circostanze della morte, fonti di stampa locali parlano di intensi bombardamenti israeliani. Poi è arrivata la conferma dell’Onu.