Dal pollaio alle piazze piene, la favola dei Chicken: nell'ultimo album anche la firma del cantante delle serie di Zerocalcare

La band di Terracina si racconta tra dialetto, mare e quella provincia che assomiglia tanto alla periferia del fumettista romano

Da sinistra Giovanni Capozio, Giovanni D'Onofrio, Daniele Senesi, Emilio Di Manno e Antonio Cicci
di Pierfederico Pernarella
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Martedì 4 Luglio 2023, 22:40 - Ultimo aggiornamento: 6 Luglio, 08:37

Tutto è iniziato da qua. E da qua ricomincia. Siamo in una stradina ai piedi di San Silviano, nel cuore della valle di Terracina che un tempo fu il regno del vino moscato. Ora i vitigni sono quasi del tutto scomparsi, sostituiti dalla serre. La vite è una pianta tosta da coltivare, tanta fatica ripagata da altrettante incertezze. Solo la passione può spingere ad andare avanti. Ma in provincia succede così per tante altre cose. Per fare musica, ad esempio. Per questo siamo qui a San Silviano, qui  si trova il quartier generale dei Chicken Production.

Li incontriamo nei giorni dell'uscita del loro ultimo album, “Calamai”. Sono al completo: i fondatori Antonio Cicci e Daniele Senesi (voci e chitarre), Emilio Di Manno (batteria), Giovanni Capozio (basso), Giovanni D’Onofrio (chitarra). La loro storia è iniziata una decina di anni fa. Le prime canzoni caricate sul web, in tanti che cominciano a canticchiarle, poi un amico operatore discografico, Massimo Iudicone, gli dice: “I vostri pezzi funzionano, fate un disco e cominciate a fare concerti”. «Fu lui a finanziare le stampe dei primi cd. Ci prestò 600 euro con la garanzia che prima o poi gliel’avremmo restituiti quando possibile. Bastarono invece pochi giorni. Trecento cd andarono a ruba. Facemmo tre ristampe».

La vera sorpresa però arriva dai live. Un’onda anomala di successo. Dopo il debutto, altri due dischi. Una foto racconta tutto. Piazza Municipio, 15 agosto 2019: una marea di persone.

Almeno 5mila. Se vi pare poco, basta chiedersi quali altri musicisti (che fanno canzoni originali) in provincia di Latina sono i più seguiti. Risponde Antonio Cicci: «Tiziano Ferro, Calcutta, noi e gli Easy Skankers. Lo dico a malincuore, perché sono in pochi a mettersi in gioco». Con tutti i rischi del caso.

Ad esempio un giorno arriva il Covid e cominciano pure ad affiorare tanti dubbi? Che si fa? Si va avanti? E come? Domande che hanno trovato una risposta nel loro quarto disco, “Calamai”. Un gioco di parole, come piace alla band: «Il titolo dell’album - racconta Daniele Senesi, voce e chitarra - sta a significare la difficoltà di scrivere nuove canzoni. Lo facciamo, non lo facciamo, anche perché se fai una cosa la fai per crescere, ma poi l’esigenza di continuare a farlo non cala mai». E i Chicken lo hanno fatto, ripartendo dal garage vicino al pollaio del nonno di Antonio che ha dato il nome al gruppo quando lui e Daniele hanno cominciato a comporre basi per hip-hop.

Per gli altri dischi, i Chicken avevano utilizzato il minimo sindacale per incidere. «Co nu zoccol e na ciavatta», riassume efficacemente Giovanni Capozio. Ora invece, quando si spalanca la porta del garage, ci troviamo davanti a uno studio di registrazione in piena regola. Qui è stato inciso anche l’ultimo album.

«C'è stata una crescita sul suono, abbiamo lavorato in un vero studio, con vere strumentazioni. E questo, paradossalmente, è avvenuto anche grazie alla pandemia», spiega Emilio. Ma che c’entra la pandemia? A spiegarlo è Antonio Cicci, il musicista di professione del gruppo, voce e chitarra nei Chicken, batterista del Mellow Mood, band di Pordenone tra le più affermate nella scena reggae internazionale. Ci sono anche loro in una canzone dell’album “Calamai”: «Quando scoppiò il Covid si è bloccato tutto, niente più concerti con i Mellow. È stato un problema, poi però ho trovato un altro buon lavoro e tutti i soldi che ho guadagnato li ho spesi lì (indica lo studio di registrazione), dal primo all'ultimo, non me ne è importato nulla. Il master sono andato a prenderlo dai Verdena a Benevento. Poi è toccato studiare e capire come funzionava tutta quella strumentazione. Il compressore, il valvolare a transistor, l'equalizzatore, il microfono».

I Chicken insomma hanno lavorato di più sulla qualità del suono, ma tenendo sempre fede alla regola aurea del pop: fare canzoni per farle cantare. Sullo schermo del computer troneggia Pippo Baudo, con le braccia aperte come il Cristo redentore di Rio de Janeiro. I Chicken darebbero la vita per farsi annunciare da lui sul palco, che intanto, dallo sfondo del pc, sembra ammonire: “Il ritornello, ragazzi, il ritornello”.

Pippo sfonda una porta aperta. Anche perché i Chicken hanno trovato un insostituibile alleato per comporre strofe: il dialetto. Con buona pace degli algoritmi e del rischio di non essere compresi: «Ci siamo posti il problema tante volte, ma la risposta è stata sempre la stessa: con il dialetto riusciamo a far arrivare pensieri e sentimenti nel modo più dritto possibile - racconta Daniele - Ci abbiamo provato anche in italiano, funziona, ma non c'è quella facilità, quell'istinto, quell'immediatezza. È come se ci fosse una mediazione».

Il master finale del disco dei Chicken è stato lavorato da Giancane che compare anche in una canzone. Uno che di dialetto in musica ne sa qualcosa, per i suoi trascorsi con la band romana Muro del Canto. Ora ha intrapreso l’avventura di solista e sue sono le colonne sonore delle serie animate di Zerocalcare. E anche il fumettista romano qualcosa c’entra con la storia dei Chicken. Gli amici, l’adolescenza, il disincanto, l’ironia e poi quella periferia che assomiglia tanto alla provincia. Un rifugio in cui trovare la propria identità, ma anche una prigione che la mette continuamente in discussione mostrandone i limiti: «Da dieci anni riempiamo le piazze, gli stereo fischiano le nostre canzoni, ma mai nessuno si è veramente interessato alla nostra storia, alla nostra musica. Cosa c’è che non va, cosa c’è che non funziona. Vabbe’, ma alla fine sti cavoli, noi andiamo per la nostra strada».

Di fronte c’è sempre il mare che dà e si prende tutto. Senza mai avvertire. I Chicken lo raccontano in tutte le sue sfumature. Luoghi, personaggi e poi quella tara meteoropatica, ereditata dai padri insieme alla camminata, che rende così sensibili a venti e correnti, tra buriane e bonacce. Terracina è lo sfondo delle loro canzoni, anche quando non viene citata: «Non abbiamo l'ambizione di fare una cartolina, ma di raccontare come si vive in una profonda provincia e in questa città qui, quali sono i sentimenti che ci provoca più spesso, quelli che vorremmo che ci provocasse e non ci provoca, le cose che ci stanno e non ci dovrebbero stare, quelle che non ci stanno e ci dovrebbero stare. Siamo figli di questo mondo qui. Nella nostra città non abbiamo avuto mai cose se non quelle create da noi o da persone vicine a noi». Un limite, ma anche un punto di forza. I Chicken non si sono disuniti. Restano una band a chilometro zero nel segno dell’amicizia e della passione, tutto fatto in casa. Anche la copertina è stata disegnata da un giovane disegnatore di Terracina, Antonio Caiazzo.

In quella dell’album di debutto c’era invece la foto in primo piano di un uomo, Pumacchia: «È un tuttofare del porto, un uomo di fatica, uno ai margini - racconta Daniele - Destino volle che quando pubblicammo il disco si sentì male, finì in ospedale. La nipote gli portò il cd e lui ci rimase affezionato in maniera viscerale. Dopo qualche tempo, era uno dei periodi in cui pensavamo di staccare e prenderci un po’ di tempo, ci arrivò un messaggio della nipote che ringraziava perché avevamo dato una sorta di rivalsa al nonno. Questa forse è una delle cose più belle che ci siano capitate da quando scriviamo canzoni».

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