Mario Venezia: «Il film su mio padre Shlomo e l'orrore dei Sonderkommando»

Shlomo Venezia ad Auschwitz negli anni Novanta
di Francesca Nunberg
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Lunedì 23 Gennaio 2023, 11:56 - Ultimo aggiornamento: 20 Marzo, 17:08

«Qui si entrava nella camera con le docce, ma erano finte. La gente correva per accaparrarsi una doccia, cominciava a strofinarsi, ma l’acqua non arrivava... C’era un tombino e da lì usciva il gas, lo Zyklon B...». A raccontare, con il fiato corto, salendo e scendendo sulle pietre di quello che fu il lager di Auschwitz-Birkenau, è Shlomo Venezia, ebreo sefardita, scrittore e superstite della Shoah scomparso a Roma nel 2012 a 89 anni. Ad accompagnarlo lo storico Marcello Pezzetti che quasi trent’anni fa ha raccolto la sua testimonianza per l’Archivio della Memoria del Cdec (il Centro di documentazione ebraica contemporanea). E oggi il video è inserito nel documentario di Ruggero Gabbai Il respiro di Shlomo, che stasera sarà presentato in una serata speciale al Teatro dell’Opera di Roma e poi trasmesso su Rai1 il 27 gennaio per la Giornata della Memoria. Un viaggio nel tempo, nell’orrore che non passa, riportato all’oggi dal figlio di Shlomo, Mario Venezia, 65 anni, commercialista e presidente della Fondazione Museo della Shoah che ha prodotto il film.

Che effetto le fa rivedere suo padre in quei luoghi e risentire quei racconti?

«Ho provato una grande commozione a vedere il film, come quella di risentire da mio padre espressioni come “fijuco”, che in ladino, ossia nell’ebraico spagnolo che lui parlava vuol dire persona fragile, inconsistente. Chissà cosa direbbe oggi di noi...

Era un uomo essenziale, riflessivo, molto legato alla famiglia. Ma noi figli abbiamo conosciuto la sua vicenda solo da adulti. La nipote Michela nel film dice di non aver saputo nemmeno che si chiamasse Shlomo, per lei era nonno Bruno. Lui non ne aveva mai voluto parlare, finché non c’è stato quell’episodio dei naziskin...».

Ossia?

«Nel ‘92 i naziskin fecero una manifestazione a Roma e lui vide le svastiche sui negozi, anche al bar di viale Libia dove faceva sempre colazione, questa fu la molla che lo spinse a raccontare. E a quel punto cominciò a partecipare ai viaggi della memoria organizzati dalla Provincia di Roma con gli studenti».

Dove comincia la storia di suo padre?

«Dalla Grecia, da Salonicco dov’era nato, in una delle comunità ebraiche più vitali e numerose del Mediterraneo, fu arrestato l’11 aprile del ‘44 e rinchiuso nel carcere militare di Haidari ad Atene, dove venne rinchiuso anche Sami Modiano. Poi deportato in Polonia. Attraversò i luoghi del buco nero della storia del ‘900 – Auschwitz, Birkenau, Ebensee, Mauthausen – per arrivare poi in Italia, a Udine e infine a Roma, dove passò la seconda parte della vita. Conobbe mia madre Marika a Grottaferrata nel ‘56, in un campo profughi gestito da un’organizzazione ebraica americana, facevano il corso di inglese insieme...Hanno avuto due figli e sette nipoti».

Per girare questo film avete ripercorso le sue tracce con Gabbai e Pezzetti?

 «Sì, non ero mai stato a Ebensee, un sottocampo di Mathausen dove i prigionieri scavavano tunnel nella roccia, un’impressione vederli, sono lunghi anche 600-700 metri, e lavoravano nella fabbrica di armi... In quei tunnel papà ha perso un polmone, non si respirava. Era lì quando venne liberato dagli americani il 6 maggio del ‘45, quattro mesi dopo Auschwitz. Sa quanto possono essere lunghi quattro mesi?».

Quale aspetto vuole raccontare il film?

«I Sonderkommando, di cui mio padre faceva parte. Era un corpo speciale di prigionieri che gestiva la parte dei cadaveri, dovevano aprire le camere a gas, tirare fuori i corpi recuperando i vestiti, i denti d’oro, i capelli delle donne e poi cremarli. Ai crematori avevano accesso solo i Sonderkommando e chi veniva ucciso, loro erano testimoni scomodi, lui in particolare ricordava tante cose... Nel lager non c’era ospedale, se stavi male restavi 2-3 giorni nel centro medico, se guarivi bene, altrimenti venivi eliminato. Il film spiega questo, come funzionava il meccanismo nelle strutture di messa a morte e come questi deportati fossero costretti a vivere a stretto contatto con i cadaveri e con l’orrore dello sterminio sistematico».

Come si è salvato suo padre?

«Quando è arrivato al campo hanno chiesto a tutti “chi sa tagliare i capelli?”. Lui aveva 19 anni, si è fatto subito avanti, non perché li sapesse tagliare davvero, ma perché ha pensato che almeno sarebbe stato al coperto.... A volte diceva di avere avuto buona fortuna a salvarsi, altre che sarebbe stato meglio morire prima e non assistere a tutto questo».

Nel film tra gli altri parla Veltroni, divenuto suo grande amico che racconta come il respiro di Shlomo (d cui il titolo del film) fosse «sempre affannato, perchè aveva respirato l’aria più venefica del mondo». Come era tornato alla vita suo padre?

«Aveva deciso che voleva vivere. Dopo la guerra il fratello era andato a Los Angeles, la sorella in Israele, lui è rimasto in Italia. Ha fatto il direttore d’albergo, in vari hotel di Roma, parlava sei lingue, e anche questo lo ha aiutato...».

Perchè?

«Nel lager eri un numero, lui  era il 182727, facevano l’appello in tedesco e se non rispondevi subito erano botte, tutti gli ordini venivano urlati. Lui parlava il greco, l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo e anche un po’ di tedesco. Era sempre un passo avanti nel capire le situazioni, forse è sopravvissuto anche grazie alla sua lungimiranza, o per aver ascoltato i consigli degli altri deportati che erano lì da prima di lui...».

Ma i Sonderkommando a un certo punto non si sono ribellati?

«Sì, ma mio padre non ha partecipato alla rivolta perché il Kapò responsabile del Krematorium III, decise di non partecipare alla rivolta dell’autunno 1944, dopo la quale vennero trucidati coloro che sierano ribellati. Proprio sulle rivolte nei lager il 27 gennaio apriremo la mostra L’inferno nazista alla Fondazione Museo della Shoah».

Cosa racconta?

«Gli atti di rivolta contro la politica di persecuzione e sterminio nazista avvenuti nei campi di Sobibor e Treblinka».

“Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal crematorio.” Così scrive Shlomo nel libro autobiografico Sonderkommando Auschwitz pubblicato da Rizzoli nel 2009.

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