Anita Garibaldi, 172 anni fa la morte nelle paludi di Ravenna: l'unico ricordo che resta ai discendenti di Aprilia

Anita Garibaldi, 172 anni fa la morte nelle paludi di Ravenna: l'unico ricordo che resta ai discendenti di Aprilia
di Stefano Cortelletti
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Mercoledì 4 Agosto 2021, 18:15

Di Anita Garibaldi restano pochi oggetti personali. Dalla sua morte a 28 anni il 4 agosto 1849 in una poverissima capanna di canne a Mandriole, nella bassa di Ravenna, allora assai più paludosa di oggi, sono passati 172 anni: non c’è neanche una foto della donna simbolo del Risorgimento italiano.

Eppure, è arrivato fino ai giorni nostri un piatto col quale la signora Garibaldi consumò i suoi ultimi pasti prima di morire. Talmente importante per la storia d’Italia che qualcuno decise di bucare quella stoviglia con un colpo di pistola: nessuno, dopo Anita, avrebbe più dovuto utilizzarlo. Gelosamente conservato dai contadini che diedero ristoro all’eroina morente, fu restituito dieci anni dopo al marito e ai figli Menotti e Teresita, tornati in quella fattoria per riprendere il corpo della donna. L’altro figlio, Ricciotti, era in Inghilterra.

«Mio nonno Menotti, il primogenito di Giuseppe e Anita, aveva 9 anni quando lei morì e la ricordava oltre che come una grande eroina anche come una madre dolcissima, un aggettivo che all’epoca raramente veniva utilizzato» ricorda Costanza Ravizza Garibaldi, pronipote di Anita. «Menotti non ha mai parlato della madre, se non con queste poche parole. Però le donne di casa Garibaldi hanno ereditato il bene forse più prezioso: la libertà. Libertà dalle convenzioni sociali, libertà di parola e di pensiero, di scelte e di forza d’animo. Mia madre ricordava bene le zie, figlie di Menotti, che le hanno insegnato ad affrontare la vita con il piglio da combattente. Questo è il valore che mi ha trasmesso mia madre e che ho insegnato a mia volta ai miei figli». «Il piatto - prosegue - è nella nostra famiglia da generazioni: lo teniamo come una reliquia».

I discendenti di Anita proprio oggi hanno deposto fiori sulla tomba dell’eroina al Gianicolo, a Roma, dove riposa dal 1931 sotto la statua equestre a lei dedicata.

Oltre al piatto, di Anita ci restano poche lettere firmate di suo pugno, peraltro non scritte da lei, un paio di forbici che Anita avrebbe regalato a un'amica prima di lasciare il Sudamerica ed esposte al museo di Laguna in Brasile, sua terra d’origine (Anita in realtà si chiamava Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva) e un vestito conservato a San Marino. «Ma non era il suo – precisa Costanza Garibaldi – perché Anita quando partì da Roma dopo la disfatta della Repubblica Romana si vestì da uomo.

Essendo incinta del quarto figlio, che non diede mai alla luce, una volta arrivata a Mandriole i suoi panni non le stavano più e le fu dato un vestito che indossò solo pochi giorni».

Anita è morta probabilmente di febbre malarica. Recenti studi condotti sugli ultimi mesi di vita della signora Garibaldi lasciano supporre che abbia contratto la malaria nell’Agro pontino: era scesa da Nizza per raggiungere il marito, ma Roma era in mano francese. Avrebbe deciso dunque di entrare da sud, passando per le paludi pontine. Lì si sarebbe ammalata. «Non ci sono prove concrete, ma è l’ipotesi più plausibile – precisa la discendente di Anita – Menotti da adulto scelse di stabilirsi in un casale che oggi fa parte del territorio di Aprilia, sempre nell’Agro pontino, con terre da bonificare e acqua dolce. Lì ha voluto la sua tomba, il suo sogno era di trasferirvi da Caprera le spoglie del padre. Il mausoleo era già pronto, ma non fece in tempo: è morto a 63 anni, nel 1903, di malaria probabilmente come la madre».

Quel casale, nella località di Carano ribattezzata Carano Garibaldi, oggi è la dimora degli eredi di Menotti. «Vorrei realizzare un museo con i cimeli di famiglia. Per ora è un sogno – conclude Costanza – ma come tutte le donne Garibaldi sono combattiva».

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