Quella barbarie del Califfato che non risparmia neppure i monumenti

di Paolo Matthiae
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Mercoledì 18 Febbraio 2015, 23:18 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 00:22
Ancora una volta. All’angoscia straziante per il sangue versato di vittime innocenti, che lascia sempre più sgomente le nostre menti e spietatamente continua a lacerare i nostri cuori, si unisce, ancora sommesso, il grido di dolore per le minacce al patrimonio culturale di terre di antichissima civiltà sulla sponda meridionale del Mediterraneo.

Oggi è la Libia che appare stretta in una morsa mortale di inespiabili contrasti, stravolta da lotte intestine interminabili, attanagliata da un cupo destino di scontri fratricidi. Mentre si ripete l’insopportabile rituale dei massacri di vite di donne e uomini incolpevoli, si profila, ancora una volta, come in un lugubre scenario, ripetitivo, fatale e inarrestabile, il rischio, quanto mai reale e prevedibile, del sacrificio delle opere - monumenti, musei, città - dell’ingegno umano che per secoli e millenni hanno fatto di quella splendida terra uno scrigno raro di testimonianze, tanto svariate quanto preziose, della civiltà umana.



Dagli innumerevoli resti di affascinanti pitture neolitiche, sparsi per un’amplissima estensione di una regione oggi desertica e spesso in straordinario stato di conservazione, delle più desolate lande meridionali del Paese alle più tenui tracce della colonizzazione fenicia sulle rotte verso Cartagine e il suo effimero impero sul Mediterraneo centrale e occidentale, dai luoghi della colonizzazione ellenica d’Africa tra i quali rifulge lo splendore di Cirene con i suoi templi diruti in un paesaggio di particolarissima suggestione ai centri imperiali romani incomparabili, tanto per la concezione monumentale quanto per l’ammirevole conservazione, quali Leptis Magna, fino alle magnifiche ville dei latifondisti dell’impero insediate sulla sponda del Mediterraneo, la Libia, per il prolungato impegno di molte generazioni di archeologi, soprattutto italiani, britannici e libici, è divenuto uno dei Paesi di più alta concentrazione di testimonianze della vitalità delle più diverse culture affacciate sul grande bacino di quel Mare Interno che non ha paragoni nella storia dell’umanità.

L’esperienza di questi ultimi mesi, cui dopo l’iniziale incredulità si è dovuto prestar fede per le agghiaccianti prove fotografiche e filmiche, dimostra che la barbarie delle bande dai vessilli neri del preteso califfato insediatosi in alta Siria e nell’Iraq nord-occidentale non risparmia alcuna testimonianza del passato, dai siti storici più celebri, per saccheggi sistematici da cui si traggono risorse finanziarie, ai monumenti della stessa fede islamica per un rigorismo fanatico sconfessato e respinto dalle più prestigiose Autorità dello stesso Islam. Nel primo caso, scavi clandestini selvaggi, sistematici e organizzati hanno depredato centri archeologici che erano depositi di tesori spesso incontaminati, che oggi affluiscono ininterrottamente, con ignobili connivenze nei Paesi confinanti, verso i sempre voraci mercati antiquari d’Europa, d’America e d’Asia, mentre nel secondo luoghi santi per lo più sciiti, ma anche sunniti, dove era venerato il ricordo di dottori della fede islamica che di quella religione sono stati autorevoli interpreti circondati da un rispetto universale, sono stati intenzionalmente distrutti come segni di pretesi culti idolatrici.



Che potrà mai accadere allora alle spettacolari città e alle sontuose residenze di quel mondo romano imperiale che ha cosparso i territori di Libia, di Tunisia e d’Algeria di testimonianze impressionanti che sono oggi patrimonio universale dell’umanità? E’ vero che, nella prima metà del Novecento, una retorica insensata delle potenze coloniali d’Europa ha fatto di quei centri urbani il simbolo di una pretesa civiltà superiore, quella appunto della Roma dei Cesari, di contro al mondo delle popolazioni locali, dai Berberi ai Fenici, ma quei monumenti, come quelli degli Arabi conquistatori nei decenni della gloriosa espansione omayyade verso quella che sarebbe diventata l’Andalusia, sono oggi un elemento importante dell’eredità culturale di un Paese, la Libia, che, come tutte le terre affacciate sul Mare Interno, ha visto transitare, insediarsi, allontanarsi genti di ogni stirpe, anche di lontanissime origini.

Il patrimonio culturale della Libia, stratificato in secoli e millenni di vicende spesso tormentate, se è, prima di ogni altra cosa, un elemento fondamentale ed ineliminabile dell’identità di un Paese che conserva ancora, nelle sue profonde radici tribali, tratti forti di diversità al suo stesso interno, ma è certo anche patrimonio universale dell’umanità. E l’umanità contemporanea, che subisce dovunque fenomeni continui ed incalzanti di appiattimenti, di omogeneizzazioni, di globalizzazioni, che tendono ad annullare i caratteri originali antichissimi di molti Paesi, non può restare insensibile e tanto meno inerte di fronte ai rischi di nuovi saccheggi, di nuove dilapidazioni, di nuove distruzioni, che, dopo i disastri che hanno colpito e continuano a colpire il mondo arabo d’Oriente, investano anche l’Africa mediterranea.



Il grido di dolore, sommesso fino ad oggi, di fronte a nuove probabili atrocità perpetrate contro il patrimonio culturale universale, deve levarsi alto e farsi sentire, con voci forti e dichiarazioni esplicite, in ogni sede internazionale con condanne inequivoche e perentorie. L’Unesco già si prodiga, nelle più varie sedi, pur con forti limitazioni, per arginare saccheggi e distruzioni nei Paesi più colpiti dalla nuova barbarie, ma ormai è l’Onu stesso che deve esprimersi, unanimemente, contro l’intenzionale disfacimento di tante significative testimonianze del Passato dell’Umanità.