La riforma della giustizia e il destino delle aziende sequestrate

di Andrea Bassi
3 Minuti di Lettura
Lunedì 25 Agosto 2014, 17:31 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 12:58
C' un punto che fino ad ora è sfuggito al dibattito della riforma della giustizia. E non è un punto secondario rispetto ad una revisione delle norme il cui scopo, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere quello di dare certezza, soprattutto agli investitori. Non è soltanto un problema di velocizzazione del processo civile con l'obiettivo di arrivare entro un anno alle sentenze di primo grado.



Il procedimento penale e i suoi tempi, sono anche essi incompatibili con quelli dell'economia. Qualche settimana fa, Alfredo Romeo, imprenditore napoletano assolto con formula piena in Cassazione dopo sei anni di processo, ha colto il punto centrale. “Quanti avrebbero resistito? Quante aziende sarebbero sopravvissute?”.



La risposta la si può desumere dai dati dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati: solo tre imprese su cento che vengono sequestrate o confiscate sopravvivono. Per le altre il destino è il fallimento e la liquidazione, con effetti paradossali. L'impresa sequestrata e poi, eventualmente, confiscata, gestita dallo Stato non solo non rende, ma diventa un costo. Finanziario e sociale, con i dipendenti in cassa integrazione a carico delle finanze pubbliche, con fornitori non pagati e crediti bancari in sofferenza. Questo, va sottolineato, anche quando, come nel caso Romeo, il procedimento termina con un'assoluzione e l'impresa, o quel che ne resta, viene restituita al legittimo proprietario.



Sono i costi della legalità, si potrebbe obiettare. L'investimento malavitoso, o presunto tale, usa l'azienda come lavatrice di denaro sporco, i dipendenti sono pagati in nero, per questo riesce a stare sul mercato facendo concorrenza scorretta a chi opera nella legalità. Ma la verità è che anche quando l'impresa sequestrata è stata gestita in maniera corretta e lecita, le sue possibilità di sopravvivenza all'amministrazione giudiziaria sono pochissime.



Quello che accade quando un'azienda finisce in questo Purgatorio lo ha spiegato bene il prefetto Giuseppe Caruso, già direttore dell'Agenzia dei beni confiscati. “Abbiamo potuto verificare di aziende gestite da amministratori che”, ha detto in un'audizione parlamentare, “hanno versato centinaia di migliaia di euro a banche senza pretendere nessun interesse, stipulando invece accordi che per il fido magari pagavano un tasso usuraio del 15 per cento”. In molte aziende, ha confessato sempre Caruso, si è dovuto azzerare i consigli di amministrazione, perché gli amministratori giudiziari si erano assegnati le funzioni di presidenti di questi organi, assegnandosi onorari milionari.



Pochi di questi amministratori, “i soliti noti”, sono sempre le parole di Caruso, “gestiscono i tre quarti dei beni confiscati sull'intero territorio nazionale”. I compensi di questi amministratori non sono a carico delle imprese sequestrate, ma a carico dello Stato, del ministero della giustizia che spende somme enormi a beneficio, se ciò che dice Caruso è vero (e non c'è da dubitarne) di pochi selezionati consulenti dei tribunali. Con il risultato, come detto, che solo un'azienda su tre sopravvive, e questo anche quando i beni tornano all'imprenditore. Lasciar fallire queste aziende è il fallimento stesso dello Stato, perché il messaggio che passa è che l'imprenditore, anche malavitoso, dà lavoro e produce benessere. Quando arriva lo Stato c'è solo il deserto.



Di recente, da quest'anno, è stato istituito un albo degli amministratori giudiziari fatto di due sezioni, una delle quali ricomprende esperti di gestione aziendale. Ma le cose per ora non sono cambiate molto. Non ci si è voluti spingere oltre, magari ponendo un limite agli incarichi che singoli amministratori possono assumere, o regolando i loro compensi. Ma anche nel penale sarebbe necessario, soprattutto quando di mezzo ci sono imprese e lavoratori, che non solo i processi, ma tutte le decisioni fossero rapide e tali da preservare le imprese e i lavoratori affidandole a chi davvero è in grado di gestirle e di comprenderne le complessità. Perché, come detto, quando un'impresa sequestrata muore chi perde è lo Stato.