Sottoscrivo queste parole anch’io convinto, con lo stesso opinionista, di quest’altra affermazione seguente: «Papa Giovanni ha dichiarato che il movimento per mettere in rapporto gli insegnamenti della Chiesa con il processo di radicale mutamento della situazione politica ed economica si è iniziato con Leone XIII e con la Rerum Novarum. Papa Giovanni lo ha proseguito, non soltanto con le due grandi encicliche, ma soprattutto con la proclamazione del Concilio».
Ma torniamo all’attribuzione di quell’appellativo: “Papa della bontà”. Ricordo bene che esso esplose il 7 marzo 1963, domenica delle Palme, nella parrocchia romana di San Tarcisio al Quarto Miglio, allorché il pontefice visitò quella comunità in piena campagna elettorale. Per l’occasione, i segretari dei partiti in lizza, Dc e Pci in testa, decisero unanimemente di eliminare manifesti e striscioni propagandistici e di sostituirli con molti teli bianchi su cui spiccava la dicitura: “Evviva il Papa buono”.
L’episodio rende onore e giustizia a tutti per l’esempio dato di sapersi unire nel tributare onore e affetto al Padre comune. Quell’“Evviva” non istituì paragoni e nemmeno costrinse il pontefice dentro la ristretta cornice della bontà “comecchessia”. Esso tradusse in qualche modo il complimento che, a nome dei colleghi del Corpo diplomatico, Georges Vanier, ambasciatore del Canada a Parigi, aveva rivolto dieci anni prima al neo cardinale patriarca di Venezia nell’incontro di congedo: «Ho letto che una gran parte della rinomanza di Bergamo era un tempo dovuta principalmente a tre attività: la produzione dei vini, la lavorazione della seta, l’estrazione del ferro. I vini di Bergamo, eminenza, sono un po’ la ricchezza del vostro cuore e la vivacità del vostro spirito.
La seta richiama la finezza del vostro temperamento di diplomatico, l’iridescenza del vostro senso delle sfumature. Essendo voi il prodotto di un paese della seta, non somiglierete certo a uno di quei cardinali severi alla Goya; no, voi avete la forza temprata dalla dolcezza che si trova piuttosto nei quadri di Raffaello. Quanto al ferro di Bergamo esso evoca la solidità dei princìpi che ispirano la vostra vita e la fermezza di carattere che non transige con la verità. (...) Voi siete nel pieno vigore, eminenza, e avete sicuramente davanti a voi numerosi anni, durante i quali potrete compiere felicemente le opere del buon Pastore» (A.G. Roncalli, Souvenirs d’un Nonce, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963).
Amava i bambini, pregava per tutti i neonati delle ultime 24 ore, non solo per quelli cattolici ma anche per quelli dei non credenti. Papa della bontà! Episodi diversissimi e sintomatici, dichiarazioni stupefacenti di rappresentanti della cultura e della religione convincono che il passaggio di Giovanni XXIII sulla scena del mondo confermò il valore attraente della bontà evangelica, che «conserva pur sempre un posto d’onore nel discorso della Montagna: beati i poveri, i miti, i pacifici, i misericordiosi, gli assetati di giustizia, i puri di cuore, i tribolati, i perseguitati», così si legge nel “Giornale dell’anima”, lo zibaldone roncalliano specchio della sua anima. Già. E il segreto – per così dire - del “successo” di Roncalli?
Molti mi hanno fatto questa domanda. Rispondo che sta nella matrice tradizionale, e, ciononostante, dinamica, della sua formazione e cultura ecclesiastica, nell’apparente paradosso tra severo conservatorismo e umana ed evangelica apertura. Alunno del seminario bergomense innestò la sua sensibilità nel tronco dei severi orientamenti ecclesiastici di ispirazione patristica; chierico appena quattordicenne iniziò a scrivere il sopra citato “Giornale dell’anima” e continuò sino a 81 anni.
Lungo tutto l’arco della sua esistenza egli rimase lo stesso prete della giovinezza, con quella sua mai smentita coerenza di pensiero e di azione, che trova riscontro in ogni variazione di ministero e di ufficio, pur nei limiti, coi difetti e le carenze di natura, di ambiente e di momento storico in cui dovette operare. Egli è stato, pertanto, un prete all’antica, abbarbicato nel terreno solido della rivelazione cristiana, che diede tono e slancio al suo servizio.
Egli volle essere il prete segnato a fuoco dalla familiarità con Cristo, e di null’altro preoccupato se non del nome, del regno e della volontà di Dio. Lo lasciò intuire in un discorso al clero romano. Era il 25 gennaio 1960, affermò: «La persona del sacerdote è sacra (...). La buona indole, gli studi severi, la proprietà della parola e del tratto sono come il mantello che avvolge l’umanità del sacerdote: ma la linfa divina della sua applicazione ai divini misteri e alle opere dell’apostolato, egli continuerà ad attingerla dall’altare. Quello è il posto suo che gli conviene innanzi tutto. Di là egli parla ai fedeli e nel volgersi a essi con linguaggio elaborato nella meditazione e fatto suo, egli ha da apparire come di casa nel tempio del Signore e le sacre parole del messale, del breviario, del rituale devono risuonare nell’intimità misteriosa della sua anima prima che sotto le volte del santuario».
Papa Giovanni, “il buono”, non suscita nostalgie, il che equivarrebbe a guardare indietro; piuttosto stimola a tentare l’avventura della testimonianza e ci invita a riaprire il Libro divino per scoprirvi l’ispirazione alla fedeltà e al rinnovamento, binomio da lui coniato come filo conduttore del Vaticano II e della sua fedele attuazione. Questo Angelo Giuseppe, angelo del Signore, rinnova ora il monito del vigilare mentre incombe la notte; di prestare attenzione, di non arrendersi alle mode ricorrenti e cangianti; e lo fa con l’autorità dei carismi ricevuti, l’eloquenza dell’esempio, la forza della bontà e della santità.